Bombardare la cultura

Stai attento e fai veloce se vuoi filmarlo, perché i russi ci martellano di continuo fregandosene del memoriale dell’Olocausto» avvisava in aprile l’ufficiale ucraino dietro i sacchetti di sabbia sulla prima linea alla periferia di Kharkiv. Il gigantesco candelabro ebraico, la Menorah, in pietra bianca era mozzato e annerito dai colpi di artiglieria. Il monumento ricorda la fucilazione in massa di 15 mila ebrei durante la Seconda guerra mondiale. Un tassello della distruzione del patrimonio culturale e storico dell’Ucraina provocata dalla guerra. E alle bombe si aggiunge la cultura della «cancellazione», che talvolta sfocia in furia iconoclasta e battaglia dei simboli da entrambi i lati della barricata.
Fino al 14 maggio il ministero della Cultura di Kiev ha registrato 331 casi di distruzione e danneggiamenti di siti, edifici o monumenti che fanno parte del patrimonio nazionale. Nelle stesse ore nuovi missili colpivano il cimitero ebraico di Glukhiv, una piccola città storica nella regione di Sumy, vicina al confine con la Federazione russa, nel nord est del Paese. I combattimenti non hanno risparmiato neppure lo splendido complesso di monasteri ortodossi del patriarcato di Mosca di Dormition Svyatogirsk Lavra nel cuore della regione di Donetsk. Razzi e bombe hanno danneggiato o polverizzato 110 siti del patrimonio culturale nazionale, 114 edifici religiosi, 41 memoriali, 26 musei e 62 case della cultura, spesso utilizzate come basi della protezione civile, teatri o biblioteche. Il censimento ucraino ricorda che «la distruzione di questo patrimonio è un crimine di guerra secondo la convenzione de L’Aja del 1954». E il responsabile del dicastero, Oleksandr Tkachenko, dichiara che «solo i barbari possono distruggere la nostra cultura in modo così disumano».

Gli ucraini hanno risposto con l’abbattimento dei monumenti dedicati ai soldati sovietici che avevano liberato il Paese dai nazisti. A Kiev è stata decapitata la statua dell’amicizia con i russi e a Chervonohrad, come in altre città, vengono rimosse altre testimonianze che raffigurano i soldati dell’Armata rossa in pose eroiche. A Odessa, bloccata dalla flotta russa del Mar Nero, resiste l’obelisco con il «fuoco eterno» alla base del «marinaio ignoto» dedicato ai liberatori sovietici nella Seconda guerra mondiale, che adesso sono invasori. Dall’altra parte i russi annullano ogni memoria patriottica ucraina nelle zone occupate e alzano la bandiera rossa con la falce e martello della liberazione di Berlino del 1945.

Nella guerra culturale e dei simboli vengono coinvolti anche gli alpini. Tutto inizia fra marzo e aprile, quando il sito russo Bloknot-voronezh.ru punta il dito contro i simboli «fascisti» delle penne nere come il monumento di Rossosch in territorio occupato, che in realtà ricorda tutti i caduti in terra di Russia durante l’ultimo conflitto mondiale. Per di più il sito accusa che alcuni alpini starebbero combattendo a fianco dei «nazisti ucraini». Sul piccolo monumento sono stilizzati sia il cappello con la penna nera che la stella simbolo dell’Armata rossa e la targa recita: «Da un tragico passato un presente di amicizia per un futuro di fraterna collaborazione». Niente da fare: quell’emblema di Rossosch, città già sede del comando del corpo d’armata alpino nel 1942, è stato distrutto e sfregiato con la la lettera Z, simbolo delle truppe d’invasione. Per di più il cippo era stato collocato dall’Associazione nazionale alpini (Ana) davanti all’asilo «Sorriso», una struttura per l’infanzia che ospita 180 bambini, costruita nel 1993 dai volontari delle penne nere e donata alla città in segno di riconciliazione. «Amarezza e sconforto sono i primi sentimenti che provo davanti alle immagini che ci arrivano da Rossosch» ha commentato Sebastiano Favero, presidente dell’Ana. «Purtroppo la storia fatica a essere maestra e questo è davvero triste». Anche il ponte dell’amicizia costruito dagli alpini a Nikolajewka, presso il Don, dove si è svolta un’eroica battaglia per rompere la sacca dell’Armata rossa nel gennaio 1943, è stato deturpato con la Z bianca e le sagome dei cappelli alpini ricoperte da una lamiera.
Kharkiv, la seconda città del Paese a 39 chilometri dal confine russo, ha subìto i danni più ingenti al proprio patrimonio culturale, registrando 90 casi. Il 6 maggio il bombardamento russo che ha distrutto il museo Hrihoriy Skovoroda a Skovorodynivka è stato commentato duramente dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky: «Non ci penserebbero neppure i terroristi, ma questo è il tipo di esercito con cui abbiamo a che fare». Skovoroda era un importante filosofo ucraino del Settecento e quest’anno ricorre il trecentesimo anniversario della sua nascita. Per fortuna le opere di maggior valore erano già state portate in salvo, ma l’edificio è completamente distrutto. A Kharkiv sono stati danneggiati anche il Teatro di Stato per l’opera e il balletto e il Museo d’arte. In molti centri a rischio di attacco le statue sono circondate da montagne di sacchetti di sabbia, sperando che sia una protezione sufficiente.
Odessa è la più «italiana» delle città ucraine. Attilio Malliani, consigliere diplomatico del sindaco e referente della Farnesina, è un calabrese elegante e ospitale che ha aiutato i nostri connazionali a evacuare all’inizio dell’invasione. «Odessa è stata fondata dagli italiani. Il primo sindaco e il primo capo della polizia erano italiani» spiega. «Tutte le più importanti opere architettoniche sono state realizzate dagli italiani». Nel centro città l’Opera, dove ha cantato Luciano Pavarotti, è protetta dai sacchetti di sabbia e non si può fotografare in quanto «obiettivo sensibile». Malliani conferma che il ministro della Cultura Dario Franceschini si sta impegnando presso l’Unesco «per far accettare con procedura d’urgenza il riconoscimento del centro storico di Odessa come patrimonio culturale dell’umanità». Uno scudo, seppure molto esile, da opporre ai bombardamenti. E per questo obiettivo, aggiunge il connazionale, «è stata costituita una task force di Caschi blu con i nostri carabinieri per la protezione dei beni culturali» pronti a partire quando le circostanze lo consentiranno.
A Kiev, intanto, sta prendendo piede una parallela «cancel culture». Nel mirino c’è Lev Tolstoj, immenso autore di Guerra e pace. Una stazione della metropolitana e una piazza gli sono intitolati, ma potrebbero cambiare nome con un sondaggio in rete condotto fra la popolazione. La campagna di «derussificazione» era già iniziata negli anni Novanta post sovietici e aveva avuto un’impennata dopo la rivolta di Maidan nel 2014. L’invasione russa ha fatto deflagrare il risentimento. Anche sommi musicisti come Pyotr Tchaikovsky o Igor Stravinsky sono sotto tiro. Una pianista di Kiev, Olha Liforenko, intervistata da Al Jazeera, è convinta che «dovremo mettere in pausa la cultura russa per lungo tempo».

Nelle zone occupate i russi fanno di peggio e cancellano da un giorno all’altro la storia e la letteratura ucraina dai programmi scolastici. I presidi che non si piegano vengono rimossi. A Mariupol, la città martire, i bombardamenti hanno fatto a pezzi la statua in bronzo di Alexander Pushkin, uno dei più amati poeti russi, che visitò lo strategico porto sul mare d’Azov nel 1820 dopo essere stato esiliato dallo zar Nicola I. I nuovi «simboli» sono la nonnina del Donbass che con la bandiera rossa della Seconda guerra mondiale avrebbe rifiutato gli aiuti alimentari offerti dai soldati ucraini. Per ritorsione i militari avrebbero calpestato la bandiera con la falce e martello e la storia è diventata virale. I russi hanno eretto una statua alla nonnina con tanto di vessillo rosso. L’Italia, anche nel delicato caso di Mariupol, prova ad intervenire con il ministro Franceschini che annuncia: «I teatri sono patrimonio dell’umanità. È giusto che il nostro Paese, così importante nella tutela dei beni culturali, intervenga a ricostruire il teatro» , che era stato trasformato in rifugio per i civili ed è stato sventrato dalle bombe.

I neonati da maternità surrogata sono protagonisti di una delle storie parallele nel conflitto di Mosca contro Kiev. Le racconta in un libro un inviato sul campo. Magistralmente.

«La prima esplosione scuote il silenzio delle cinque. Precede i latrati cupi delle antiaeree, fa scattare gli allarmi delle auto, fa morire i sogni all’alba».
È il 24 febbraio 2022, inizia la guerra nel cuore dell’Europa. E comincia la narrazione incalzante di Fronte Ucraina, un saggio originale che – sfidando le leggi del giallo – parte dall’ultimo capitolo per riavvolgere la pellicola della storia e cercare il cuore di tenebra di una tragedia annunciata da almeno otto anni. Lo ha scritto Francesco Battistini, inviato speciale del Corriere della Sera e lo pubblica Neri Pozza. Ed è importante per capire non solo la guerra ma l’uovo del serpente che l’ha partorita. Era davvero imprevedibile questo fronte? Come mai non ci siamo accorti di una miccia accesa accanto a noi, che stava per far scoppiare la terza guerra mondiale? Perché abbiamo lasciato che Vladimir Putin diventasse un pericolo?
Ancora una volta la risposta non è nel taschino dei sociologi o nel microfono dei dieci, cento esperti che spuntano in televisione come gasteropodi dopo un temporale. Ma nella penna di chi da oltre un decennio frequenta quelle città i cui nomi abbiamo imparato a conoscere (Kiev, Kharkiv, Leopoli), percorre le lande della pianura sarmatica, parla con protagonisti e «ordinary people» con il passo di chi la realtà la va a guardare in faccia. E si imbatte in vicende al limite del paradossale. Come quella che Battistini racconta mentre tenta di rientrare in Italia e ci dice qualcosa di più rispetto al mondo sconvolto dai carri armati russi.

È la fuga dei neonati. «Perché alla frontiera con la Moldavia stanno arrivando tanti lattanti? Che ci fanno qui tutti questi bimbi di appena una o due settimane? Sono in braccio a mamme e papà un po’ impacciati, che non sanno bene che fare, né come. Una ragazza s’asciuga il naso: me l’ero immaginata diversa la maternità. Una mamma transgender si fa spiegare il cambio di pannolino».
All’improvviso all’inizio della guerra sono spuntate famigliole francesi, spagnole, italiane, molte benestanti. Gente che non viveva in Ucraina ma era atterrata un mese prima o poco più. Si legge: «Sono le nascite di febbraio, i figli appena nati dagli uteri in affitto. Ottocento bimbi di guerra solo nella capitale, per caso venuti al mondo in questa parte di mondo. I genitori per alcuni giorni li hanno tenuti nascosti nella speranza di una via di fuga discreta e riservata. Ma alla fine non si è più potuto». L’Ucraina è la Betlemme delle maternità surrogate commerciali. Uno dei pochi Paesi che permettono le nascite a pagamento: 50 mila euro, un terzo di quello che costa negli Stati Uniti. Le bombe cadono anche su queste storie, bisogna affrettarsi, i fattorini delle cliniche «sono più svelti di un autista di Amazon Prime». Il check-point somiglia a un grande, inquietante asilo nido.

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