L’olocausto oltre la siepe

In corsa per cinque Premi Oscar, il film La zona di interesse racconta la vita (vera) del comandante di Auschwitz che abitava in una casa con giardino e piscina adiacente al campo di sterminio, insieme a moglie e cinque figli. Una famiglia «normale», gelosa della propria routine privilegiata, ma indifferente all’orrore dei forni crematori che si compie al di là del muro. Il regista Jonathan Glazer ne parla con Panorama.


Un prato in pendenza, vicino a un lago, immerso nella luce del sole. Una famiglia con diversi bambini e alcuni uomini in costume da bagno coi capelli cortissimi sono intenti a fare un picnic. Si scherza, si gioca, qualcuno si tuffa in acqua: tutto è calmo in quella che sembra la quintessenza dell’idillio. Sono queste le prime immagini di La zona d’interesse, il film di Jonathan Glazer in uscita il 22 febbraio, già vincitore del Grand Prix al festival di Cannes e candidato a cinque premi Oscar, compresi quello per il miglior film e il miglior regista.

Piano piano però l’idillio lascia spazio alla realtà quando la famigliola rientra a casa, un’ordinata villetta su due piani col giardino e la piccola piscina, circondata da un altissimo muro di cinta alla cui sommità si trova il filo spinato: il proprietario è Rudolf Höss (Christian Friedel), membro delle SS che la mattina dopo aver fatto colazione con la moglie Hedwig (Sandra Hüller, candidata all’Oscar per Anatomia di una caduta) e aver salutato i cinque figli, si reca al lavoro al di là del muro per comandare le operazioni quotidiane del campo di concentramento di Auschwitz. «Sono ebreo e forse questa idea di occuparmi dell’Olocausto è stata sempre dentro di me. Così ho iniziato a chiedermi se non potessi dare anche io il mio contributo, raccontando magari un aspetto meno esplorato della Storia» racconta a Panorama Glazer, regista londinese famoso per aver girato il thriller Under the Skin ma anche per i numerosi videoclip musicali per gruppi come Massive Attack, Jamiroquai e Radiohead. «È stato quando ho letto La zona d’interesse, il libro di Martin Amis (pubblicato in Italia da Einaudi, ndr), che ho iniziato a pensare che quella forse poteva essere la chiave giusta».

Il titolo del film e del romanzo corrisponde a quella terminologia usata dagli stessi nazisti per definire l’area di 40 chilometri quadrati circostante il complesso del campo di concentramento di Auschwitz, e descrive per contrasto, rispetto all’orrore ben conosciuto e qui invisibile, la vita delle persone che nel campo ci lavoravano e dei loro familiari, complici silenti di quel massacro: una quotidianità fatta di gite in barca, del lavoro d’ufficio del padre di famiglia, dei tè della moglie con le amiche, delle domeniche passate a pescare al fiume, contrappuntata dagli echi di spari o dal crepitio del fuoco dei crematori provenienti dall’altra parte del muro.

All’inizio Glazer non aveva una storia, perché il romanzo di Amis racconta fatti storici attraverso personaggi inventati, ma è stato visitando Auschwitz e vedendo la casa della famiglia Höss, che il regista ha compreso di dover dare nomi e cognomi reali ai suoi personaggi. Spiega: «Abbiamo iniziato a fare ricerche e a comprendere attraverso la visione di alcune foto originali il senso di come doveva essere la vita al di qua del muro di cinta del campo di concentramento. Ho capito che avremmo raccontato la vicenda dal punto di vista dei carnefici, ma non avremmo mai fatto vedere le atrocità commesse».

È stato proprio ricercando negli archivi che il regista e i suoi collaboratori hanno trovato lo spunto per far proseguire la trama oltre l’agghiacciante ripetersi della routine: dopo essersi adoperato per far costruire un nuovo forno crematorio più efficiente, Höss viene promosso a vice ispettore di tutti i campi di concentramento e gli viene chiesto di trasferirsi con la famiglia vicino a Berlino.

Dopo aver nascosto per alcuni giorni la notizia alla moglie, il militare si scontra con Hedwig che, profondamente attaccata a quella casa e alla quiete della loro vita lì, cerca di convincerlo a lasciare lei e i suoi figli ad Auschwitz. «Abbiamo trovato varie notizie cercando negli archivi», spiega Glazer «e in particolare una testimonianza del giardiniere che ha assistito all’annuncio di Höss dell’imminente trasferimento di tutta la famiglia: una discussione durante la quale la donna andò su tutte le furie. Era chiaro per me l’orrore di quella visione totalmente dissociata, secondo cui la sua casa, il suo giardino, la sua vita domestica lì fossero talmente belli da non potervi rinunciare». L’illuminazione è arrivata insieme alla convinzione che i malvagi non dovessero però nel film essere dipinti come mostri. «La cosa più spaventosa è che questi atroci crimini sugli esseri umani sono stati commessi da altri esseri umani. E anche se può sembrare utile prendere le distanze da chi li ha commessi, pensando di essere diversi e di non essere in grado di compiere qualcosa del genere, credo che non dovremmo esserne così certi, perché la violenza alberga in tutti noi. Vorrei che chi vede il film si sentisse più simile ai carnefici che alle vittime». Una volta stabilito quale dovesse essere il filo conduttore di questo inedito sguardo sull’Olocausto, il problema da affrontare è stato quello delle riprese: «Abbiamo provato a immaginare di girare il film in altre parti della Polonia» prosegue il regista, «ma alla fine abbiamo capito che non potevamo non farlo ad Auschwitz».

Dopo aver ottenuto dal museo del Campo di concentramento il permesso di ricostruire l’abitazione degli Höss in un casa confinante con il lager stesso, Glazer ha girato la pellicola per 55 giorni lungo 18 mesi, attraversando tutte le stagioni. «Non è stato facile», ammette, riferendosi al carico emotivo sopportato da lui e da tutta la troupe che in certi giorni costringeva a sgombrare totalmente dalla mente il fatto che gli eventi raccontati nel film erano avvenuti esattamente in quei luoghi.

Impegnato su un set dove molti attori parlavano una lingua, il tedesco, che lui stesso non capiva e poteva interpretare solo con l’aiuto di un traduttore, Glazer ha optato per uno stile quasi documentaristico che contribuisce alla straordinarietà della pellicola, come si trattasse, parole sue, di organizzare una puntata del reality Il Grande Fratello all’interno di una casa nazista: «Abbiamo cercato di osservare le azioni dei personaggi come farebbe un antropologo» aggiunge. «E per questo insieme alle scene che seguivano esattamente la sceneggiatura, ce ne sono state molte in cui partendo da uno spunto ho lasciato improvvisare gli attori. Filmando lunghe scene ininterrotte con 10 cineprese nascoste all’interno della casa e in giardino». La spontaneità racconta perfettamente la tragedia.

Leggi su panorama.it