«L’assassino di Ardea non è stato seguito a dovere»

La strage di ieri avvenuta ad Ardea in provincia di Roma, dove un uomo affetto da disturbi psichiatrici, ha ucciso un anziano a due bambini ha sconvolto l’Italia. Una tragedia che in poche ore ha fatto quattro vittime e che ha riportato alla ribalta la difficile gestione di queste persone anche potenzialmente pericolose: quante sono? Chi le cura e come? È possibile prevedere azioni simili a questa?

«Questi episodi non sono spiegabili attraverso elementi della realtà esterna perché questo signore ha commesso un gesto incomprensibile – ci spiega Fabrizio Starace Presidente della società di epidemiologia psichiatrica – Il problema vero è che aveva a disposizione un’arma. Mi sembra di comprendere che non ci sia a livello territoriale un sistema informatizzato che monitori la disponibilità di armi detenute da un membro della famiglia, in questi caso addirittura deceduto, mentre la questione psichiatrica andrà verificata. Ci sono solo informazioni la cui attendibilità è ancora al vaglio degli organi inquirenti, perché è fondamentale capire quanti fossero gli episodi di comportamenti pericolosi e come si sono attivati i servizi sociali e sanitari difronte al disagio psichico di questo individuo: è il loro mandato. Questa persona aveva un disturbo ma da quanto emerge era solo».

All’uomo era stato fatto un TSO e poi era stato rimandato a casa dopo 7 giorni. Questo tipo di prassi come si è visto ieri non evita a soggetti che potrebbero essere potenzialmente pericolosi di commettere dei gesti criminali. Cosa ne pensa?

«Non sono le persone ad essere pericolose ma i loro comportamenti che possono essere controllati con delle norme precise. C’è un obbligo a realizzare un piano psicologico. Tutti quelli che vengono ricoverati per un sintomo avuto e non strutturato non sono pericolosi. La prassi del trattamento sanitario obbligatorio è corretta ma dopo il ritorno a casa in questo caso avvenuto dopo 7 giorni c’era necessità di proseguire il trattamento. Questa persona andava seguita. Poteva tornare a casa ma non doveva interrompersi la continuazione della cura. È come se una persona ha un infarto, si agisce nell’immediato ma poi deve continuare con visite e cure».

È stato fatto? Quanto sono in grado i servizi sociali sanitari e sociale di agire preventivamente?

«Molti servizi hanno solo un assetto ambulatoriale per mancanza di risorse e criteri di efficienza dalle aziende. Noi in salute mentale non abbiamo bisogno tecnologie particolari ma di tecnologie umane. Sarebbero serviti almeno 1/2 operatori per poter seguire lui è la sua famiglia. È stato dimesso rapidamente perché evidentemente è stata rilevata una condizione episodica non strutturata ma ripeto è importante la continuità del trattamento, del rapporto terapeutico a domicilio e non solo in ambulatorio. La colpa è come sempre della risorse. Non si parla mai di assistenza domiciliare ne di interventi alla famiglia. Questo caso deve farci riflettere sulle risorse messe a disposizione per migliorare la condizione di queste persone».

Quanti soggetti ci sono in Italia con queste caratteristiche?

«In Italia ci sono 850mila persone seguite dal Dipartimento di Salute mentale. Circa un quinto soffrono di psicosi».

Dopo l’accaduto si è riaperto il dibattito sui centri di igiene mentale chiusi con la legge Basaglia. Cosa ne pensa?

«La prima questione da sottolineare è che quando c’erano i manicomi i tassi di omicidio e violenza erano maggiori di adesso. Immaginare come in questo caso di utilizzare la psichiatra per porre rimedio a comportamenti criminali non è l’ottica giusta. È il sistema giudiziario che se ne deve occupare. Questa persona avrebbe già aggredito con un un coltello e non è stato accusata di tentato omicidio. Se un altro soggetto avesse fatto lo stessa cosa non sarebbe tornato a casa senza problemi e nell’immediatezza sarebbe stato condotto in carcere. La questione dei manicomi come luogo dove esorcizzare il timore e le ansie della popolazione, la trovo un argomento privo di fondamento. Un disturbo psichiatrico grave nel momento in cui viene recuperato deve aprire ad un percorso dove si affianca la famiglia con un medico, un infermiere e delle visite domiciliari. Nei casi più gravi ci sono a disposizione strutture (circa 30/35mila) residenziali comunitarie per i pazienti psichiatrici. Le condizioni dei servizi per la salute mentale sono disuguali da regione a regione. Su queste disparità bisogna ragionare. Buttare la croce e trovare il capro espiatorio non serve. In quanti casi si é davvero impegnati al di là del caso di cronaca? A fronte dei dati del ministero sui disagi psichici cosa si sta facendo? È questo che dobbiamo chiederci e spero che su queste questioni si possa discutere nella conferenza per la Salute Mentale che si terrà il prossimo 25 giugno e 26 giugno»

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