Hong Kong, la Grande Mela d’oriente

Le leggi liberticide volute da Pechino non l’hanno resa meno attraente per i turisti. Fra nuovi musei, templi urbani, locali alla moda e quartieri unici, mantiene vivo un dinamismo degno di New York. Il nostro viaggio nella città «incancellabile».


Per salire su Victoria Peak e guardare la baia luccicare al tramonto non ci sono più le file di una volta, le serpentine spazientite di gente in attesa. Una mezz’ora scarsa e si è già sul trenino a cremagliera che s’arrampica sulla montagna con una diagonale da vertigini, aggrappati ai sostegni per non precipitare all’indietro. Poi un’indigestione di scale mobili e dritti verso la Sky Terrace 428 (quanti i metri sul livello del mare), per la foto dei desideri con i grattacieli laggiù in posa.

Su «Avenue of the stars», il lungomare delle stelle che ogni sera osserva le intermittenze ubriache degli alberghi e della ruota panoramica, si trova posto a sedere, così come sullo Star Ferry, il traghetto che fa la spola galleggiando tra nord e sud, tra l’isola e la penisola. Le folle, un’archeologia da pre-pandemia, sono svanite, ma per un visitatore allergico al caos è un guadagno. Hong Kong non sarà più quella di una volta, ma è ancora quella di sempre: ha la stessa tempra svogliata dei venditori dello street food e dei negozietti di cianfrusaglie, consapevoli che si finirà comunque per cedere alle loro tentazioni; mantiene le sue idiosincrasie, l’individualismo spinto, l’eclettismo dei quartieri, ognuno fieramente diverso dal confinante, dove la vita scorre indifferente, scissa dal ritmo del tempo: o è passato remoto o è avanguardismo esagerato; o sono palazzoni mostruosi, di un’autenticità commovente, o musei e centri culturali tirati a lucido all’inverosimile. E poi c’è l’inglese, una valuta orale accettata quasi ovunque, che per queste zone dell’Asia resta un privilegio dal valore inestimabile.

Le leggi liberticide di Pechino per la tutela della sicurezza nazionale, il soffocamento preventivo di qualunque impeto rivoluzionario, la chiusura forzata degli ombrelli spalancati contro una pioggia di lacrimogeni, non hanno strappato via a Hong Kong il titolo di «New York d’Oriente». Nessuna metropoli è un tale melting pot di culture, di geografie opposte eppure conviventi in uno spazio minimo. Un talento radicale di rimanere alla moda senza apparire un tentativo d’imitazione, una brutta copia di mondi agli antipodi. Certo, Singapore è magnifica e verdissima, ma a tratti costruita, rigida, perfettina; l’ex colonia britannica, più scarmigliata, meno definibile, è l’altro ingresso privilegiato, lo scalo comodo dall’Europa per l’Indonesia, il Vietnam, la Cambogia, la Thailandia o per spezzare le infinite rotte verso l’Australia. Invita a una pausa breve, di due o tre giorni, che diventa una seconda vacanza. È un approccio morbido, non edulcorato, alla spigolosità cinese.

La locale Cathay Pacific, una delle migliori compagnie aeree del pianeta, ha da poco portato a quattro i voli settimanali diretti tra Milano e Hong Kong, a conferma dell’interesse in crescita per la destinazione. A bordo serve pasti in collaborazione con Louise, ristorante stellato con sede in una delle strade principali dell’isola, assieme a una selezione di alcuni fra i più pregiati vini cinesi; nelle sue lounge, il pezzo forte resta il noodle bar, che prepara sul momento spaghetti affogati nel brodo bollente e altre squisitezze. Il cibo svetta tra i vanti della città incastrata tra il futurismo tecnologico di Shenzhen e il delirio trasgressivo di Macao. È un’estasi per tutte le tasche, si va dai ravioli a poco prezzo di One Dim Sum all’ortodossia sapiente di Duddell’s, che probabilmente si rivelerà il miglior pasto a base di cucina cantonese della vostra vita. Per viziarsi la meta ideale è il Four Seasons, con la piscina sontuosa e le camere che scrutano le architetture temerarie delle torri della finanza o le cime placide di Victoria Peak.Il ristorante cinese bistellato Lung King Heen si presenta come un ibrido fra tradizione e sofisticazione, mentre il modo ideale per concludere la giornata è il bar dell’albergo, Argo, saldamente posizionato nella classifica dei migliori 50 al mondo. Solo gli arredi e il design originale dei cocktail valgono la sosta.

Hong Kong è fuoco sotto la cenere, lancia scintille e lapilli di furore, nonostante i bavagli, le censure, le cesure rispetto a quello che avrebbe potuto essere. Non si abbandona alla nostalgia perché la cultura galoppa, si sparge tra l’M+, il nuovo museo dedicato all’arte visiva contemporanea e Tai Kwun, l’ex stazione della polizia con annessa prigione, che ora cattura l’attenzione di locali e visitatori con mostre ed eventi. La spiritualità s’insinua ovunque, diventa un rifugio introspettivo al riparo da qualunque intrusione e interferenza. Il tempio buddista Chi Lin Nunnery, con il vicino Nan Lian Garden dalle atmosfere giapponesi (incluso il laghetto di carpe koi), è sfarzoso ma algido. Meglio arrivare al più periferico monastero dei Diecimila Buddha, un trionfo di pareti di statuine dorate. Si raggiunge con una scarpinata tra sculture di monaci pietrificati e alcuni lesti in carne e ossa, che provano a mendicare dai turisti un’offerta in denaro. Sono degli impostori: vari cartelli avvertono della truffa e della presenza dei cinghiali, vietando categoricamente i selfie con le rissose bestiole. A chi verrebbe mai tale malsana idea, non è dato sapere.

Hong Kong, ed è un merito, vive di bizzarrie e sovrabbondanze, come la scala mobile più lunga al mondo, dove far rifiatare le gambe e sentirsi dentro un film di Wong Kar-wai, che più volte ha trasformato in un set la metropoli asiatica. Hong Kong non è un angelo perduto, per citare una delle opere di culto del regista, ma un luogo incancellabile, anzi La città indelebile, riprendendo il titolo del libro della giornalista Louisa Lim, pubblicato in Italia da add editore. Un excursus storico e un racconto intimo di una geografia meno libera ma per sempre straordinaria, agitata dalla ribellione permanente della sua unicità.

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