La riforma della giustizia  al «minimo sindacale», utile solo per il Pnrr

Dopo i patetici bluff tentati negli ultimi giorni da Giuseppe Conte, dopo le roboanti minacce di una possibile uscita dalla maggioranza, lanciate e immediatamente ritirate a mezzo comunicato stampa, pare che quella che i quotidiani da due mesi definiscono pomposamente «riforma della giustizia» possa andare avanti.

Oggi il ministro Marta Cartabia ha incontrato Mario Draghi per ragionare assieme sulle modifiche proposte dai grillini per portare a conclusione i processi di mafia. Sembra sarà imboccata la via di modificare un comma della riforma, prevedendo esplicitamente che i crimini da ergastolo (cioè l’omicidio, la strage e i reati di terrorismo e mafia) non rientrino tra quelli che devono rispettare le regole della cosiddetta «improcedibilità», ovverossia la norma che prevede che il giudizio d’appello non definito entro due anni e quelli di Cassazione entro un anno impongono al giudice di dichiarare decaduta l’azione penale.
Sarebbe questa la grande vittoria di Conte. E cioè allargare il perimetro dei processi che non possono cadere per ragionevoli termini di tempo anche reati come l’estorsione o il voto di scambio mafioso. Per vedere l’effetto finale ci sarà tempo fino a venerdì 30 luglio, quando il testo finale dovrebbe approdare nell’aula della Camera dei deputati. Il percorso sarà comunque cosparso di ostacoli. Non se lo nascondo né Draghi né il suo guardasigilli, i quali sanno bene che nel centrodestra c’è allarme per ogni concessione ai grillini. Più arrendevole pare Matteo Renzi, che ha dichiarato che Italia Viva voterà la fiducia «su tutto ciò che ci porta lontano dalla riforma della prescrizione voluta nel 2018 dall’ex ministro Alfonso Bonafede». Ma Giulia Bongiorno, plenipotenziaria di Matteo Salvini, ha annunciato comportamenti ben più bellicosi: «Vogliamo leggere ogni minima modifica», ha detto, «non firmiamo nulla a occhi chiusi».

Anche Forza Italia è in subbuglio. Oggi in commissione Giustizia sono state respinte le sue richieste, che puntavano ad alleggerire le norme sull’abuso d’ufficio per «tutelare i sindaci e gli amministratori pubblici» dall’eccessivo e continuo rischio di finire indagati anche per inezie. Contro la richiesta hanno votato 25 deputati, a favore 19. Il protagonista della battaglia è stato Pierantonio Zanettin, penalista, ex membro laico del Consiglio superiore della magistratura, oggi capogruppo in commissione Giustizia. I suoi emendamenti cercavano di riscrivere le regole dell’abuso d’ufficio, cancellandolo se il fatto commesso è «tenue». Non ce l’ha fatta.

La riforma, insomma, va avanti tra una bottarella qua e una spinta mancata là. In attesa di venerdì, comunque, un bilancio preventivo è possibile, e il giudizio è deludente. La valutazione più congrua è venuta dall’Unione delle camere penali, l’associazione degli avvocati penalisti, che ha accusato il progetto Cartabia di eccessiva timidezza. In effetti, come ha sottolineato il presidente dell’Ucpi Giandomenico Caiazza, la «piccola riforma» costituisce il minimo sindacale per ottenere dall’Europa i fondi de Recovery plan.

La lentezza della nostra giustizia è intollerabile non solo dal punto vista etico e giuridico, ma soprattutto da quello economico. Il blocco della prescrizione voluto da Bonafede l’avrebbe resa eterna, e l’Europa non l’avrebbe tollerato. Non potendo cancellare la follia grillina senza umiliare il partito di Conte, il ministro Cartabia ha spostato il problema su un binario parallelo: se la sentenza non arriva entro un termine ragionevole, il processo si estingue.

Questo però non significa che la riforma sia una soluzione. La lunghezza dei processi penali ha infatti un’unica madre: la sproporzione tra i mezzi e i fini, tra le risorse disponibili e i reati perseguire. Che sono troppi, e il legislatore continua a crearne di nuovi (basta pensare al controverso progetto contro l’omotransfobia del deputato dem Alessandro Zan). Poi esiste il vincolo dell’obbligatorietà dell’azione penale, che rappresenta non solo un’evidentissima contraddizione con il sistema accusatorio, varato nel 1989, ma per molti pubblici ministeri è soltanto il pretesto per inventarsi indagini inutili.

La riforma Cartabia, soprattutto, sta accuratamente lontana da tutti i punti più caldi (e pericolosamente «divisivi») della crisi della giustizia: tutte le zone d’ombra emerse grazie agli scandali degli ultimi anni. La riforma, per esempio, non sfiora nemmeno il Csm, e distoglie volutamente lo sguardo dallo strapotere delle correnti della magistratura, capaci di subordinare la giurisdizione a vergognosi interessi particolari o personali. La riforma non prende nemmeno nella più vaga considerazione l’idea di arrivare a qualche forma di separazione delle carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti, né considera la possibilità d’introdurre una serie responsabilità civile per le toghe che sbagliano.

Insomma, la riforma Cartabia è davvero una piccola cosa. Come dice Renzi, migliorerà anche il disastro grillino sulla prescrizione, ma purtroppo non risolverà nessuno dei veri mali della giustizia italiana. Insomma, la classica occasione perduta.

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