La Cina in ginocchio causa Covid

Con la stessa disinvoltura con cui per quasi tre anni ha perseverato sulla miope politica «zero Covid» imposta da Xi Jinping, ora la Cina prova a cambiare radicalmente strategia. E lo fa non cognizione di causa, ma sull’onda delle proteste dei cinesi che, in un crescendo di violenza, hanno finalmente aperto gli occhi al governo di Pechino.

Per quanto s’incontri con Dmitri Medvedev per propiziare l’alleato russo e fare da contraltare alla visita di Volodymyr Zelensky a Washington Dc – rimarcando così lo schema delle alleanze che vede la Cina schierata con la Russia, gli Stati Uniti con l’Ucraina – ciò che davvero interessa al leader cinese non è la guerra. Non è Taiwan. E non sono probabilmente neanche le stime del Pil in ribasso.

In definitiva, ciò che preoccupa davvero l’ex Impero celeste sono le serie e gravi conseguenze della scellerata politica sanitaria ordinata del Partito comunista, che ha sottostimato il pericolo dei contagi e che ha trovato come unica soluzione quella di «murare vivi» i cinesi e chiunque si fosse anche blandamente ammalato.

Ora, però, con un colpo di teatro (o forse sarebbe meglio dire, un colpo di testa) Xi Jinping cambia radicalmente rotta e si è lanciato in aperture senza controlli, per blandire la popolazione stremata da un incubo che appare senza fine. Ma le conseguenze di questa diversione non si sono fatte attendere. Il balzo di infezioni da Covid 19 in Cina registrato nelle ultime settimane, indica che il virus si sta diffondendo dalle grandi città alle vaste aree rurali, comportando un’ondata di contagi senza precedenti. Il che spaventa l’Organizzazione mondiale della sanità, che si dice «molto preoccupata».

Al momento, il segnale forse più angosciante che viene dalla Cina sono le file di bare che attendono davanti ai crematori dal nord-est al sud-ovest del Paese, dove gli addetti ai lavori hanno dichiarato che stanno facendo «i salti mortali per tenere il passo con l’aumento dei decessi».

Per questo il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha chiesto a Pechino «informazioni più dettagliate sulla gravità della situazione, malattia, ricoveri ospedalieri e unità di terapia intensiva». Ma difficilmente avrà risposte. E come potrebbe essere, del resto, se Pechino ha già taciuto (per non dire mentito) la stessa notizia della comparsa di un virus, che pure sapeva essere letale e che avrebbe potuto prendere le forme di una pandemia?

Xi Jinping non ama le intrusioni sul suo operato, e di certo tollera il dissenso: l’allontanamento dell’ex presidente cinese Hu Jintao dalla cerimonia di chiusura del XX Congresso del Partito comunista nella Grande sala del popolo (portato via di peso da due commessi davanti alle telecamere di tutto il mondo) ne è la plastica dimostrazione. Perciò, da parte sua continua a minimizzare, con il governo che rassicura la comunità internazionale sul fatto di non aver registrato «decessi dovuti al virus dopo». Ma lo ha fatto solo dopo aver modificato i criteri di conteggio.

Le autorità cinesi sostengono così di aver registrato appena «sette morti, tutti nella capitale», da quando è stato deciso di revocare la politica «zero Covid». Da adesso, pertanto, vengono considerati «decessi dovuti al Covid» solo quelli direttamente riconducibili a insufficienza respiratoria causata dal virus.

Ma come si fa a credere alla narrativa di un regime oscurantista come quello creato dalla leadership cinese, di fronte a tale disastro? Per comprendere meglio la vita in Cina dopo due anni e mezzo di Coronavirus, basterebbe chiedere ai lavoratori della Foxconn di Zhengzhou, una delle più grandi fabbriche di Cina e che, tra l’altro, assembla per la Apple gli iPhone di mezzo mondo. Qui, come in molti altri stabilimenti in tutto il Paese, il governo ha risposto ai focolai di Covid sigillando i lavoratori in fabbrica e costringendoli a vivere per lungo tempo all’interno della struttura stessa: non solo per evitare contagi dall’esterno, ma anche per mantenere inalterati i ritmi di produzione.

Sembra la trama di un film su un futuro distopico alla Blade Runner, ma è la triste cronaca della Cina al tempo di Xi Jinping e della sua politica radicale. Che, neanche a dirlo, si è rivelata un fallimento totale. Che qualcosa sarebbe andato storto, lo si è compreso meglio quando le masse operaie e i semplici cittadini hanno dato vita a scontri con le forze dell’ordine o si sono dati alla fuga dalle restrizioni. Schedati e monitorati, tutti sono stati riacciuffati grazie al riconoscimento facciale.

Ma la tecnologia cinese, per quanto pervasiva ed efficace, non ha capacità taumaturgiche e non poteva certo risolvere questioni molto umane come frenare gli effetti una pandemia sanitaria. Essersi affidati ai soli dati, ai monitoraggi e alla fideistica disciplina delle forze di polizia – che troppi arresti hanno dovuto gestire – non ha infatti impedito il caos. Anzi, lo ha propiziato.

Ecco la vera sconfitta della politica di Xi Jinping. Si è sentito onnipotente e ha sottostimato il problema, infischiandosene tra l’altro della sola scelta razionale che si poteva mettere in campo, che invece ha salvato l’Occidente da conseguenze peggiori: la vaccinazione a tappeto. Il pilastro della politica occidentale ha portato Europa e Stati Uniti dalla crisi alla rinascita a meno di due anni di distanza dal primo vaccino somministrato. All’epoca, la pandemia in Cina era sembrata ampiamente gestibile, con la popolazione tornata a una routine di quasi normalità in pochi mesi. Ma oggi quel quadro ci appare per come era: distorto dalla propaganda di Pechino.

E la risposta alla domanda sul perché è tutta nell’arroganza cinese, che ha volutamente snobbato la politica di ricerca, produzione e somministrazione di vaccini a mRNA. Quelli prodotti in Cina non sono mai risultati neanche lontanamente paragonabili per efficacia a quelli prodotti e distribuiti in Europa e Stati Uniti.

E così alcuni studi predittivi teorizzano che l’aver trascurato la politica di vaccinazione intensiva, potrebbe portare addirittura a un milione di morti in Cina nei prossimi mesi. Con il paradosso che adesso sono gli Stati Uniti a dirsi pronti a fornire alla Cina vaccini o altre forme di aiuto per fronteggiare la nuova ondata di Covid nel Paese.

«Gli Usa sono il più grande donatore di vaccini al mondo e intendono continuare ad aiutare chiunque, inclusa la Cina» ha riferito con orgoglio il portavoce del dipartimento di Stato americano, Ned Price, in proposito.

Dunque che farà adesso Xi Jinping? Continuerà ostinatamente a rifiutare l’aiuto esterno per puro orgoglio o – visto anche che è nell’interesse della comunità internazionale aiutare Pechino a tenere l’epidemia sotto controllo – aprirà le porte all’Occidente? Oppure dopo che già hanno la responsabilità di aver scatenato la prima pandemia del secolo, lasceranno che ciò accada di nuovo? Qui sta il dilemma cinese.

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