Una pista rossa per la morte di Falcone: nel 1992 si occupava dell’Oro di Mosca

Cosa Nostra, certo. Ma forse non soltanto. Vi stupireste se, dietro la strage di Capaci di 30 anni fa, si nascondessero altri interessi, coerenti con quelli dei boss? E se altre organizzazioni criminali avessero partecipato all’attentato che il 23 maggio 1992 uccise Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta?

Una pista d’indagine assai interessante, con un possibile e concretissimo movente per la tragica fine di Falcone, è stata misteriosamente abbandonata dalla magistratura italiana. È quella del cosiddetto «Oro di Mosca», cioè i finanziamenti versati al Partito comunista italiano: l’equivalente di oltre 989 miliardi di lire tra il 1951 e il 1991. Quella montagna di denaro era stata spedita in 40 anni al Pci e al suo scioglimento (nell’ottobre 1989) era andata anche al suo erede, il Pds. Il mittente era il «Fondo di assistenza internazionale ai partiti e alle organizzazioni operaie e di sinistra» dell’Unione sovietica. Si tratta di quasi mille miliardi di lire, che hanno pesantemente condizionato la vita politica del Dopoguerra. E l’Italia era la destinazione privilegiata del Fondo di assistenza, visto che da sola pesava in media per il 55 per cento dei versamenti.

A fine maggio Falcone doveva «tornare a Mosca»

Ma c’è un importante collegamento tra l’Oro di Mosca e Falcone, che nel febbraio 1991 aveva lasciato il suo posto di magistrato inquirente ed era stato chiamato dal ministro della Giustizia socialista Claudio Martelli a dirigere l’importante Ufficio affari penali del ministero.

In quel ruolo, uno dei suoi incarichi specifici era proprio quello di occuparsi delle rogatorie internazionali: le pratiche giudiziarie che richiedono l’intesa e l’assistenza reciproca tra i ministeri della Giustizia dei Paesi coinvolti. E tre giorni esatti dopo la morte di Falcone il quotidiano moscovita La Nuova Isvestia pubblicò una notizia che in Italia passò inosservata. Il 26 maggio 1992 il giornale rivelò che tra la fine di maggio e i primi di giugno di quell’anno Falcone sarebbe dovuto «tornare a Mosca per coordinare le indagini sul trasferimento all’estero dei soldi del Pcus».

La notizia è assolutamente vera, ed è confermata da fonti autorevoli: prima di morire, tra la primavera e l’inizio dell’estate 1992, Falcone ebbe ripetuti contatti con Valentin Stepankov, il nuovo procuratore generale della Russia post-sovietica, che come primo incarico si era messo a indagare sui finanziamenti versati dall’Urss ai partiti fratelli. Lo stesso Martelli, in un convegno romano organizzato l’8 novembre 1999 per presentare il libro L’Oro di Mosca (Mondadori) di Valerio Riva e Francesco Bigazzi, da poco uscito, conferma che Falcone era coinvolto nell’indagine di Stepankov tra Italia e Russia.

Quel giorno, a Roma, Martelli dice testualmente: «Falcone un giorno venne in ufficio da me, e ricordo che fra gli altri argomenti mi parlò di questa questione. Era molto eccitato, e lo era sia perché aveva avuto un’eccellente impressione di Stepankov, di cui mi disse: “È un uomo di prim’ordine”, e poi per la materia, evidentemente un po’ incandescente, o almeno scottante, e in terzo luogo perché pensava, sfruttando anche quest’episodio, di poter inaugurare una stagione di collaborazione giudiziaria con l’ex unione Sovietica, con la quale non c’era un rapporto di cooperazione».

L’ex ministro della Giustizia aggiunge: «Ricordo che a un certo punto le carte (di Stepankov, ndr) vennero trasmesse alla Procura di Roma (…) e mi pare, in una fase successiva anche alla Procura generale, il cui capo era allora Filippo Mancuso, e dopo la morte di Falcone come è noto la vicenda si è conclusa con un’archiviazione. Credo perché si è indagato soltanto sotto la fattispecie d’ipotesi di finanziamento illecito, e non sotto altre fattispecie che pure potevano essere configurate».

Martelli, che nel 1991-1992 ha lavorato spalla a spalla con Falcone, conferma quindi i preparativi del viaggio a Mosca: «Falcone me ne parlò e io lo incoraggiai ad andare per prestare tutta l’assistenza, la collaborazione ai nostri magistrati, e anche per trovare la possibilità di inaugurare una forma di cooperazione giudiziaria stabile». Aggiunge Martelli: «Che vi fossero altre carte oltre a quelle che poi Stepankov ha trasmesso alle autorità giudiziarie italiane, anche di questo, sì, ho il ricordo: me lo disse Falcone. E questo era uno dei motivi per cui era così interessato e sollecito nel volere andare, nel recarsi di persona a Mosca. Io lo consigliai di accompagnare i magistrati italiani».

Una pista battuta e abbandonata

La pista dell’Oro di Mosca nel corso del tempo è stata battuta e poi abbandonata, ma ancora oggi resta fra le più misteriose e suggestive tra le possibili concause della morte di Falcone. Secondo la Nuova Isvestia di 30 anni fa, il magistrato sarebbe stato incaricato di coordinare le indagini su un colossale riciclaggio dei fondi del Pcus in Italia, «su invito dell’ex presidente della Repubblica italiana, Francesco Cossiga». Falcone, scriveva ancora il giornale russo, «lavorava in coordinazione con la brigata speciale che si occupa della medesima indagine a Mosca». L’Italia, per la Nuova Isvestia, «faceva parte del ristretto numero di Paesi in cui i soldi del disciolto Pcus e dello Stato sovietico scorrevano a fiumi: solo negli anni Settanta, 6 milioni di dollari erano stati trasferiti annualmente dal Politburo come aiuti fraterni».

«Non è escluso» aggiungeva l’articolista russo «che i fondi del partito e dello Stato (cioè l’Urss, ndr) siano stati pompati in strutture occulte italiane per altre strade: attraverso Paesi terzi, sotto forma di tangenti per contratti, e come profitti derivanti dal traffico illegale di Oro e di altri preziosi (…). L’Italia non veniva scelta a caso per gli investimenti del Partito. Le strutture della mafia molto sviluppate, la posizione di forza dei comunisti locali, i solidi contatti stabiliti da tempo, tutto ciò prometteva grandi profitti agli investitori del Pcus».

La notizia dell’incarico di Cossiga viene confermata anche nel saggio L’inganno di Tangentopoli (Marsilio editore) scritto nel 2012 dall’ex ministro liberale dell’Industria Renato Altissimo, Con un’aggiunta: «Dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio nessuno però seguì quella pista, che portava ai segreti bancari di San Marino».

Nel libro Strettamente riservato (scritto sotto lo pseudonimo di «Geronimo» e pubblicato dalla Mondadori nel 2000), anche Paolo Cirino Pomicino parla della morte di Falcone. Va ricordato che, mentre scoppiava la bomba di Capaci, Cirino Pomicino era ministro del Bilancio nel governo guidato da Giulio Andreotti. Le sue considerazioni partono dalla errata convinzione che gli ultimi finanziamenti da Mosca al Pci fossero arrivati nel 1984: in realtà è stato provato in base a documenti ufficiali che il flusso è continuato almeno fino al 1991. Ma leggiamo quel che scrive Pomicino: «Furono versati dopo che Michail Gorbaciov dette ordine di non finanziare più i partiti satelliti e quindi su questi finanziamenti indagò la magistratura sovietica dopo il colpo di stato di agosto, e quell’ultimo finanziamento saltò fuori. La domanda è: chi riciclava i dollari trasformandoli in lire? La mafia. Ed è su questo che indagavano Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: non a caso due magistrati di destra…».

Anche Borsellino indagava sull’Oro di Mosca

Insomma: prima di morire, sia Falcone sia Borsellino indagavano sull’Oro di Mosca e sui suoi passaggi attraverso Cosa nostra. E forse anche sui collegamenti tra mafia italiana e mafia russa. E Geronimo, subito dopo, conferma anche l’imprimatur del Quirinale su quelle indagini: «Falcone aveva informato allora Andreotti che il suo interessamento era stato sollecitato dal presidente Cossiga qualche mese prima».

Cirino insiste anche sulle caratteristiche tecniche dell’attentato: «Falcone venne ucciso a Capaci, in una strage in cui furono utilizzati materiali abbastanza insoliti per la mafia e più consueti, invece, per le centrali del terrorismo internazionale». Sta di fatto che, scrive l’ex ministro, «tutte le conoscenze che Falcone aveva sui flussi di denaro sporco passarono allora a Borsellino che, a sua volta, secondo l’annuncio dato da Enzo Scotti e Claudio Martelli in tv, avrebbe dovuto assumere la guida della Procura nazionale antimafia. Fu la sua condanna a morte. Due mesi dopo Borsellino saltò in aria alla stessa maniera di Falcone».

Geronimo non lo scrive esplicitamente, ma con questo collegamento diretto inserisce quindi anche la strage di via D’Amelio sotto lo stesso inquietante cono d’ombra, che mescola mafia e «terrorismo internazionale», per usare le sue parole. E subito dopo, per inquadrare ancora meglio quel diabolico maggio del 1992, l’ex ministro conclude così il capitolo: «Alla fine del mese, infine, Vincenzo Scotti (ministro dell’Interno dello stesso governo Andreotti, ndr) mi disse che il Sisde lo aveva informato di un fatto strano: a notte fonda erano partiti da Botteghe Oscure due camion carichi di carte e di armi. Il ricordo mi è stato confermato ancora una volta dallo stesso Scotti nell’autunno 1999».

Andreotti: «Il Kgb ebbe un ruolo nella morte di Falcone»

Ma c’è un altro ex ministro che conferma il collegamento tra Falcone e l’Oro di Mosca, e si tratta addirittura di Giulio Andreotti. Nel saggio Storia d’Italia da Mussolini a Berlusconi (Rai-Eri e Mondadori, uscito nel 2006), Bruno Vespa raccoglie in un lungo paragrafo i sospetti del sette volte presidente del Consiglio, che negli anni fu anche ministro degli Interni, degli Esteri, della Difesa. «Andreotti» rivela il giornalista «ha sempre avuto il sospetto che dietro l’assassinio di Falcone ci fosse anche lo zampino dei servizi segreti sovietici». Poi dà direttamente la parola all’ex presidente del Consiglio, che conferma i suoi sospetti: «Non l’ho mai detto» racconta Andreotti «per non attirarmi l’accusa di voler distogliere i sospetti dalla mafia, ma nulla impedisce di pensare che le due cose si siano sommate. L’attentato a Falcone fu organizzato in modo così spettacolare che, né prima né dopo, la mafia da sola fece niente di simile».

Vespa chiede ad Andreotti perché mai i servizi sovietici, o meglio quanto ne era rimasto dopo la caduta del Muro, avrebbero avuto interesse a uccidere Falcone. E Andreotti, nel libro, risponde così: «Perché Falcone si occupava della fine che avevano fatto i fondi segreti che il Pcus aveva tentato di esportare in Italia dopo la caduta del Muro, ricevendo il rifiuto dei comunisti italiani. Si riteneva, in ogni caso, che quei fondi fossero transitati in Italia, ma dai documenti noti non si riusciva a ricostruirne il percorso e la destinazione finale».

Andreotti aggiunge un fatto inquietante: «Al ministero degli Esteri» racconta «è archiviato un telegramma che dimostra che il procuratore russo Stepankov avrebbe dovuto incontrare Falcone subito dopo la strage di Capaci. Il procuratore stava svolgendo l’indagine, e Falcone, dal ministero, gli stava dando una mano». Di quel telegramma, però, si scoprirà in un secondo momento che è scomparso.

Cossiga conferma: l’inchiesta ci fu

Nel libro, Vespa intervista anche a Francesco Cossiga, e anche a lui chiede di ragionare sulla strana coincidenza tra l’attentato di Capaci e il mancato viaggio a Mosca. E l’ex capo dello Stato gli conferma che «Stepankov aveva rivolto al nostro governo una duplice richiesta di assistenza giudiziaria. Voleva conoscere anzitutto l’ammontare dei finanziamenti ricevuti dal Pci: aveva scoperto che parte di quei soldi proveniva dal bilancio del ministero del Commercio con l’estero e voleva rivalersi contro il vecchio Pcus, accusandolo di aver distratto soldi dello Stato. E poi voleva capire dov’erano finiti i soldi esportati in Occidente dai sovietici prima che Boris Eltsin sciogliesse il Pcus».

Cossiga prosegue rivelando altri fatti importanti: «Massimo D’Alema mi ha confermato che i sovietici allocarono questi fondi presso i conti dei partiti comunisti occidentali e di organizzazioni collaterali. Però ha aggiunto che, quando un uomo di finanza italiano, non comunista, andò a chiedergli se poteva mettere a disposizione i conti del Pci in Italia e in Svizzera per versarvi i fondi del Pcus, lui gli rispose negativamente. I russi inoltrarono le richieste attraverso il ministero degli Esteri. Il governo italiano non rispose, e lOro si arrabbiarono».

Nel libro di Vespa, così conclude Cossiga: «Quando Falcone diventò direttore generale degli Affari penali voleva da un lato compiere il monitoraggio delle sentenze, dall’altro coltivare i rapporti con il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti (…). Falcone voleva recarsi a Mosca, invece fu Stepankov che venne una prima volta in Italia. Andammo a prendere il caffè in piazza Navona. La seconda volta che venne, Falcone non c’era più». Nel senso che era morto.

L’inchiesta della Procura di Roma

L’ultimo capitolo di questa storia riguarda la magistratura italiana. Poco dopo la tragica morte di Falcone, una sua delegazione parte da Roma, e la destinazione è proprio Mosca. La delegazione comprende il procuratore della Capitale, Ugo Giudiceandrea, con i sostituti Franco Ionta, Luigi De Ficchy e Francesco Nitto Palma. Li seguono due ufficiali di polizia giudiziaria, destinati in seguito a ruoli di primissimo piano nei nostri servizi segreti: sono il colonnello dei Carabinieri Antonio Ragusa e il colonnello della Guardia di finanza Nicolò Pollari.

A Mosca gli italiani atterrano nel pomeriggio del 3 giugno 1992, seguiti da un codazzo di giornalisti. E da subito le loro cronache descrivono notevoli progressi, sono decisamente promettenti. Il giorno dopo, sul Corriere della Sera, Marco Nese scrive per esempio che «se le carte dei russi sono veritiere, dal punto di vista giudiziario (per i responsabili del Pci-Pds, ndr) non si configura solo il reato di violazione della legge sul finanziamento dei partiti. Ci sono anche illeciti tributari e falsi in bilancio. Dai documenti pare che risulti una clausola speciale. Se venisse confermata, sarebbe un fatto clamoroso. Si tratta di questo: i soldi arrivavano a condizione che il Pci seguisse in certe occasioni la linea dettata da Mosca».

Il giorno in cui gli inquirenti italiani ripartono per Roma, il 5 giugno 1992, sulla Repubblica così scrive Franco Coppola, che ha seguito la missione: «A Mosca gli inquirenti italiani hanno avuto l’autorizzazione di consultare i documenti (cioè le carte segrete custodite negli archivi sequestrati dal governo russo dopo il fallito golpe dell’agosto 1991, ndr) e di portarne a casa una parte, utile per le indagini in corso. Il 20 di questo mese ricambieranno la cortesia, ricevendo a Roma il procuratore generale Stepankov».

Coppola, che evidentemente ha avuto modo di parlare con gli inquirenti italiani, parla dei risultati dei loro contatti moscoviti in termini molto concreti e quasi trionfali: «Le indagini hanno permesso di ricostruire i complessi meccanismi in base ai quali i rubli arrivavano a società italiane che, gestite per conto del Pci, avevano rapporti commerciali con l’Urss e venivano accumulati come capitali in nero utilizzati dal partito».

Il giornalista, che pure scrive per un quotidiano che in quel momento è vicino al Pci-Pds, azzarda anche qualche interessante conclusione giudiziaria. Ed è evidente che i suoi suggeritori sono gli stessi magistrati romani in missione, oppure gli ufficiali di polizia giudiziaria: «Questa ipotesi» scrive Coppola «configurerebbe reati che superano la violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti, per arrivare fino a illeciti tributari e a falsi in bilancio. Anche perché i conti sarebbero stati accreditati in Italia, ma su banche estere».

Nell’articolo, poche righe dopo, arriva poi quello che oggi suona come un intenso colpo di gong, tanto più se letto alla luce dei sospetti o delle tesi dei quattro ministri dell’epoca. Coppola annota questa frase, che dà conto delle scoperte dei magistrati italiani: «I rubli che lasciavano l’Urss arrivavano anche alle cosche siciliane. Ecco perché, dicono, se ne interessava anche Falcone. Insomma, consultando i documenti, gli inquirenti italiani sono inciampati in un filone che porta dritto a Cosa nostra. (…) Tra i documenti consegnati da Stepankov figurerebbe anche un elenco delle ditte che in Italia avrebbero costituito il terminale del denaro stanziato dalle autorità sovietiche».

Ad affiancare Cosa nostra e il traffico dei rubli, e quindi anche qualche uomo del vecchio Pci o qualche ditta «vicina» al partito, insomma, nel giugno 1992 sono gli stessi inquirenti italiani, che ne sembrano convinti come Stepankov e i colleghi della Procura generale moscovita. E i russi sono giustamente preoccupati per l’incolumità degli inquirenti italiani: sempre Repubblica sottolinea il clima di tensione e preoccupazione che circonda la loro missione. «I quattro magistrati e i due funzionari, all’arrivo all’aeroporto di Mosca mercoledì pomeriggio, sono stati praticamente sequestrati dalla polizia russa e accompagnati in una località segreta».

Coppola conclude la sua cronaca sottolineando quel che intanto va scrivendo Izvestia sulla missione giudiziaria. Il quotidiano russo «sostiene che Falcone doveva venire a Mosca in questi giorni per verificare la fondatezza dell’ipotesi di “un possibile collegamento tra boss del Pcus e mafia internazionale”. Infatti, aggiunge il giornale, “si può presumere che non sia un caso che sia stata scelta proprio l’Italia per il trasferimento di capitali del Pcus all’estero, poiché le esistenti strutture mafiose, legate storicamente con clan criminali stranieri, e le forti posizioni dei comunisti locali, promettevano grandi profitti ai sovietici che investivano quei soldi”».

Il 6 giugno 1992, sul Corriere, Nese racconta ancora altro: «Negli anni Settanta le campagne dei comunisti italiani per i referendum sull’aborto e sul divorzio furono pagate dai sovietici. E un’altra clamorosa sorpresa che i magistrati della Procura di Roma hanno trovato fra le carte degli archivi segreti che il procuratore generale di Mosca Stepankov ha messo a lOro disposizione. I dossier sui pagamenti sono molto precisi. Spiegano nei dettagli le cifre versate e lo scopo con cui venivano erogate le somme: aiutare il Pci a fare una propaganda massiccia».

Ma l’inchiesta scompare

Come in un buon giallo, non manca nemmeno il personaggio misterioso. Nese aggiunge che i miliardi sovietici «furono accreditati in Svizzera, un canale già utilizzato in altre occasioni». L’inviato a Mosca aggiunge che «adesso i magistrati italiani conoscono il numero del conto bancario svizzero. Sanno anche a chi era intestato. Un personaggio molto importante che viene definito “assolutamente insospettabile”. Al lOro ritorno a Roma, il procuratore Giudiceandrea e i tre sostituti, Ionta, Palma e De Ficchy, vorranno sicuramente ascoltare questo “insospettabile” titolare del conto svizzero. E chiedergli spiegazioni».

Sembra tutto molto promettente, vero? E invece no. Perché, a sorpresa, dell’inchiesta romana quasi subito si perdono le tracce. Puf. Spariscono i sospetti, le certezze, i miliardi, i dossier, la mafia, le società fiancheggiatrici, perfino il misterioso titolare del conto svizzero, agente in nome e per conto del Pci-Pds. È vero che tra i pubblici ministeri italiani e Stepankov ci saranno altri incontri, uno sicuramente a Roma il 20 di quello stesso giugno 1992. Ma dopo quel giugno non si leggono cronache, non si percepisce alcuno sforzo di scavo. L’inchiesta s’inabissa, come nella storia capita a certi procedimenti italiani, particolarmente scomodi o «impopolari». I giornali ne parlano sempre meno. Due anni dopo, nel 1994, la Procura di Roma chiede e ottiene l’archiviazione del procedimento sull’Oro di Mosca. E il collegamento con Falcone scompare per sempre.

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