mercoledì, 9 Ottobre 2024
Sul green rischiamo l’embargo tecnologico cinese
Una buona fetta di chi vuole affrettare la conversione energetica sostiene che la possibilità che si verifichino gravi crisi internazionali provocate dal mercato dei metalli rari utilizzati per la produzione di batterie non sarebbe così grave come altri, più scettici, sostengono. Secondo i «pro-elettrificazione rapida», con alcuni media in testa, i mercati metalliferi, in modo del tutto spontaneo, risolveranno i problemi associati all’ormai diffuso dominio cinese di grandi zone dell’Africa. In particolare si pensa alla corsa dell’Europa alla produzione di accumulatori di energia che usino minori quantità di questi metalli, alla possibilità di fare accordi con l’Australia e con le nazioni sudamericane nei cui territori sono presenti cobalto, grafite e silicio. Di fatto però la maggioranza di questi Paesi non intende affatto modificare la sua decisione a proposito delle quantità massime di materiali che si possono estrarre e soprattutto esportare, proprio ragionando in termini di tutela paesaggistica e idrogeologica dei loro territori, ma anche di indipendenza industriale. Ciò che i neo-ecologisti si guardano bene dal ricordare è che se oggi la Cina dovesse tagliare le forniture di batterie ricaricabili al resto del mondo andrebbero in crisi non soltanto i costruttori di autoveicoli, ma in primis quelli di elettronica di consumo, elettrodomestici e telefonia. E insieme con questi l’informatica e dunque anche la sicurezza ad essa associata. Per esempio, ipotizzando un – per ora iprobabile – embargo tecnologico di Pechino nei confronti degli Usa i cinesi perderebbero svariati punti di Pil per il mancato export (dal 3 al 5%), ma gli americani si troverebbero nei guai dai supermercati fino alla sicurezza nazionale e dovrebbero metter mano – o per meglio dire la ruspa – a quanto nascondono i grandi parchi e le catene montane dagli Appalacchi al deserto del Mojave.
Affermare oggi che la Repubblica Popolare stia riducendo la richiesta delle cosiddette «terre rare» dalle quali si estraggono i materiali nobili delle batterie è falso: la piccola flessione degli ultimi dodici mesi è soltanto la coda dell’effetto dovuto alla pandemia che ha rallentato le produzioni e le esportazioni, poiché di fatto i grandi costruttori di batterie rimangono per oltre il 90% cinesi.
Ma il pericolo vero è legato al mercato militare, in quanto molti componenti chiave dei sistemi di difesa della Nato, e in primis degli Usa, si basano su materiali che al di fuori dalla Cina scarseggiano o non sono disponibili. A sostenerlo è la nuova Guida strategica per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Biden, che richiama alla necessità di salvaguardare queste catene di approvvigionamento al fine di migliorare la sicurezza e stabilizzare l’economia degli Usa.
In realtà l’ideologia ecologista ha legato le estrazioni minerarie di questo tipo di materiali rari alle immagini che provengono dall’Africa Centrale, mentre è invece possibile ricavare cobalto, silicio e grafite dal sottosuolo anche senza distruggere gli ecosistemi, usando metodi meno invasivi grazie a tecnologie più moderne che in Africa oggi non sono presenti. Attualmente gli Stati Uniti possiedono miniere di «terre rare» altamente regolamentate e processi di estrazione basati su metodi moderni che limitano l’impatto ambientale e che possono evolvere insieme con l’aumento della richiesta di mercato. Semmai la vera tragedia ambientale è la consolidata abitudine europea e americana di far finta di nulla innanzi all’ostinata distruzione ambientale che la Cina persegue eseguendo operazioni minerarie dannose e frettolose per soddisfare le nostre stesse richieste di mercato. Certamente l’innovazione è un elemento chiave della futura indipendenza dalla Cina, motivo per cui la ricerca tecnologica in Europa dovrebbe essere aumentata al livello non inferiore rispetto agli Usa, in modo che non soltanto le batterie, ma anche i magneti, i circuiti e tutte le componenti utilizzate sui veicoli elettrici e non soltanto siano migliori di quelli attuali e meno impattanti sull’ambiente. Negli Usa esistono gli investimenti del Defence Production Act per le tecnologie di prossima generazione che potrebbero garantire la competitività a lungo termine e il supporto per l’innovazione necessaria per competere con la Cina. E proprio uno dei primi atti ufficiali del neo presidente Joe Biden è stato quello di riconoscere la necessità di fare maggiori investimenti firmando un ordine esecutivo che affronta esplicitamente le difficoltà di approvvigionamento dei materiali ritenuti critici durante la pandemia come i semiconduttori, gli ingredienti farmaceutici e naturalmente immateriali nobili per la costruzione di batterie. Mentre l’Europa, con il programma Horizon Europe 2021-2027 ha posto cento miliardi a disposizione della ricerca vincolando il finanziamento dei progetti ad aspetti “green”, ma spalmandoli su vari settori che spaziano dall’informatica all’aerospazio. Di fatto a parte il settore automotive, che si sta riorganizzando per non dipendere da Cina e Giappone, si pensi alle giga-factory tedesche nate recentemente nel periodo post-dieselgate, altri comparti industriali sono fortemente in ritardo e rimangono completamente dipendenti da Pechino.