Shang-Chi e la leggenda dei Dieci Anelli | Recensione

Shang-Chi e la leggenda dei dieci anelli

Fino a una quindicina d’anni fa, l’idea che Shang-Chi diventasse protagonista di un film ad alto budget sarebbe stata una fantasia delirante, per pochi iniziati. Lo stesso discorso vale anche per Ant-Man o i Guardiani della Galassia, ma il caso in questione è ancora più significativo, soprattutto alla luce degli scenari geopolitici contemporanei. Creato da Steve Englehart (testi) e Jim Starlin (disegni) nel 1973, Shang-Chi nasce dal successo dei film di arti marziali, alla stregua di Pugno d’acciaio, e dal tentativo della Marvel di acquistare i diritti della serie Kung-Fu: è quindi un personaggio legato in qualche modo al cinema d’exploitation, come Luke Cage e altri esponenti delle cosiddette “minoranze”. Realizzare Shang-Chi e la leggenda dei dieci anelli nel 2021, però, significa valorizzare la rappresentazione etnica nella Hollywood dei bianchi, impegnata a riscattarsi – non senza opportunismo – dopo decenni di stereotipi culturali e macchiette folcloristiche. Di conseguenza, Shang-Chi non è più un personaggio collaterale, ma un eroe che merita di entrare nel giro dei grandi, calato in un mondo dove i rapporti di forza sono cambiati.

In tal senso, il film di Destin Daniel Cretton non sarebbe stato possibile senza l’ascesa della Cina come nuova superpotenza, o quantomeno non sarebbe stato girato in questo modo. Al contrario di Red Sparrow o del prossimo House of Gucci (dove personaggi non anglofoni parlano inglese tra loro con accento locale), Shang-Chi e la leggenda dei dieci anelli trova sempre una valida giustificazione per l’utilizzo dell’inglese, e inoltre riserva il 20-30% dei dialoghi alla lingua cinese: non è poco per un blockbuster del genere, soprattutto se consideriamo la ben nota idiosincrasia del pubblico USA verso i sottotitoli. Ma nei confronti di un paese che detiene gran parte del debito pubblico americano, Hollywood è disposta a fare concessioni mai viste prima. Non è solo un ragionamento interessato, sia chiaro: Cretton e gli altri sceneggiatori (tra cui Dave Callaham, di origini cinesi) vogliono omaggiare un immaginario che per troppo tempo è stato vittima di cliché, rappresentando al contempo la vita comune – anche qui, non stereotipata – dei giovani asiatici americani.

Uno dei punti di forza del cinecomic è proprio questo. Sean (Simu Liu) e la sua amica Katy (Awkwafina) sono due normalissimi ventenni che vivono alla giornata, senza particolari ambizioni né prospettive: fanno i parcheggiatori per un hotel di lusso a San Francisco, si prendono le ramanzine dalla famiglia di Katy e dagli amici già sistemati, passano le serate a bere e cantare al karaoke. L’avventura, in questo mondo dove “metà della popolazione può sparire da un momento all’altro”, li travolge a causa del passato di Sean, che in realtà si chiama Shang-Chi ed è il figlio di Wenwu (Tony Leung), l’antico capo dei Dieci Anelli, reso immortale dagli eponimi manufatti. I Dieci Anelli sono altrettanti bracciali di origine misteriosa, che infondono grandi poteri in chi li brandisce. Quando gli uomini di Wenwu cominciano a dare la caccia a Shang-Chi, il giovane eroe rivela tutta la sua maestria nelle arti marziali, e intraprende un viaggio con Katy per raggiungere sua sorella Xialing (Fala Chen) e scoprire cosa sta succedendo.

Con la loro consueta furbizia nel rimaneggiare la mitologia dei fumetti, i Marvel Studios cambiano le origini del protagonista, pur mantenendo intatta la rivalità con il padre: negli albi era il genio del male Fu Manchu, mentre nel film è il vero Mandarino (nome che gli è stato erroneamente attribuito da Aldrich Killian, reo di appropriazione culturale in Iron Man 3). Lo scontro edipico è il cuore di Shang-Chi e la leggenda dei dieci anelli, insieme al peso di un retaggio bipartito: da un lato l’eredità paterna, simbolo di forza e senso dell’onore; dall’altro quella materna, emblema di grazia e comunione con la natura. Shang-Chi – pur propendendo verso la seconda – deve accettarle entrambe per diventare adulto, formandosi appieno come eroe.

Analogamente, il film cerca di far convivere le sue opposte anime culturali, quella occidentale dei blockbuster supereroistici e quella orientale dei wuxia. È evidente nelle scene d’azione: la CGI permette di mettere in scena i superpoteri e la plasticità grafica dei fumetti, mentre l’abilità degli stuntmen e degli attori (Simu Liu è un artista marziale di Taekwondo e Wing Chun) rievoca il cinema di Hong Kong. Alcune coreografie rimandano alla giocosità di Jackie Chan, con tanto di movimenti accelerati e un grande utilizzo di materiali scenografici come elementi attivi; altre sono proprio figlie del wuxia, e uniscono danza, combattimento e volteggi antigravitazionali per dare corpo al dialogo interiore fra i personaggi. Esemplare la specularità dei duelli fra padre-madre e padre-figlio, posti in equilibrio ai due estremi della storia. Si avverte il tentativo di dare maggior spessore alle scene d’azione, sia come impegno fisico sia come sottotesti emotivo-caratteriali, e la differenza rispetto alla media del Marvel Cinematic Universe è palese.

C’è persino un maggiore sense of wonder, qualità che pochi cinecomic del MCU possono vantare: esplorando un lato finora nascosto di questo universo, scopriamo ambientazioni lussureggianti e creature bizzarre che accontentano anche il target più giovane. Certo, quando si scende a livelli più terreni c’è qualcosa che stride, come la caratterizzazione di Xialing, frutto di una visione maschile che rischia di far danni anche se animata da buone intenzioni. La sorella di Shang-Chi è infatti il solito personaggio femminile senza sfumature, seriosa e monolitica, paradossalmente vicina al cliché della dragon lady. Più riuscita è invece la figura di Katy, che si smarca dal ruolo di semplice “spalla comica” e guadagna un ruolo decisivo, intrattenendo col protagonista un legame di amicizia nient’affatto banale (per quanto riguarda i rapporti uomo-donna a Hollywood). Sono entrambi asiatici, ma cresciuti negli Stati Uniti: un ponte fra culture, connubio ideale per la sopravvivenza dell’America stessa. Fra tutti i blockbuster di Hollywood, Shang-Chi e la leggenda dei dieci anelli è il film che esprime meglio questa esigenza di confronto pacifico, quasi una preghiera rivolta alla nuova superpotenza. Ma, al di là delle sue implicazioni (e della necessità di ibridarsi per sopravvivere), è anche un cinecomic di ottima fattura, godibilissimo e spettacolare.

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