One Life, la recensione del film con Anthony Hopkins

One Life

Il talmud babilonese contiene una frase divenuta celebre a livello popolare, soprattutto dopo Schindler’s List di Steven Spielberg: “Chi salva una vita salva il mondo intero”. Il titolo di One Life si riferisce proprio a tale concetto, ma sottolinea inoltre quanto una singola vita possa influenzare le esistenze altrui, garantendone il futuro mentre il mondo va in fiamme.

La vicenda di Sir Nicholas “Nicky” Winton, come quella di Oskar Schindler, si affida al cinema per ottenere una meritata risonanza internazionale, e oltrepassare i confini entro i quali era già molto nota. Giovane broker londinese di origini ebraiche, Nicholas (Johnny Flynn) si reca a Praga nel dicembre del 1938 per assistere gli esuli fuggiti dalla Germania e dall’Austria. I nazisti hanno già occupato alcune regioni della Cecoslovacchia, e minacciano di spingersi fino alla capitale: Nicholas organizza quindi il trasferimento di centinaia di bambini ebrei da Praga a Londra, perché sfuggano all’invasore e trovino rifugio presso famiglie affidatarie. Riesce a salvarne 669, prima che lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale porti la Germania a chiudere le frontiere.

One Life, però, non racconta soltanto il dramma umano e l’impegno logistico del salvataggio; gran parte del film di James Hawes si svolge infatti tra il 1987 e il 1988, quando Nicholas (interpretato da Anthony Hopkins) ha più di 80 anni. Sua moglie Grete (Lena Olin) lo incoraggia a tramandare la sua storia, che diventa di dominio pubblico grazie alla trasmissione That’s Life! della BBC, permettendogli di ritrovare i bambini che ha salvato, ora adulti. Si tratta insomma di una doppia ricostruzione storica, ma la sceneggiatura di Lucinda Coxon e Nick Drake, basata sulla biografia di Nicholas scritta da sua figlia Barbara Winton, fa una scelta interessante: pur rievocando i fatti del ’38/’39, il copione si focalizza soprattutto sugli anni Ottanta, e quindi sull’eredità di quello straordinario gesto.

Questa soluzione permette a Anthony Hopkins di reggere il nucleo del film sulle sue spalle, con l’aria sorniona e discreta di chi non si ritiene un eroe: Nicholas ha compiuto il bene semplicemente perché era la cosa giusta da fare, come se fosse stata la decisione più naturale del mondo. E dice moltissimo della cultura in cui viviamo, plasmata dalla manipolazione emotiva della TV commerciale, il fatto che la sua storia venga resa nota da un programma nazionalpopolare come That’s Life, ansioso di piazzare il colpaccio per gli ascolti: recatosi in trasmissione, Nicholas non sa di essere circondato dai suoi “bambini”, salvati cinquant’anni prima, e la sua sorpresa genuina viene data in pasto al pubblico in diretta. Una tecnica che, anni dopo, sarebbe stata imitata da molti programmi della televisione italiana.

Sia chiaro, One Life non ha alcun intento critico, ma evidenzia (forse involontariamente) l’assurdità e l’opportunismo dei media di fronte a vicende così delicate. Per il resto, si tratta di un film didattico, senza guizzi di regia o di fotografia che lo rendano memorabile; anzi, le scene ambientate nel 1938 ricordano certe produzioni televisive di medio livello, proprio in termini di ricostruzione storica. Il suo merito è di affidarsi alla classe sottile di Hopkins, e di riportare alla luce una storia edificante che non tutti conoscono: la dimostrazione che un barlume di umanità resta sempre acceso, anche negli angoli più oscuri del nostro passato collettivo.

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