Maria Chiara Castelli: «Vi svelo i segreti della scenografia di Sanremo 2021»

Se c’è un passaggio chiave nel conto alla rovescia per l’inizio di Sanremo, è senza dubbio lo svelamento della scenografia. Sì, c’è l’attesa per la lista dei Big in gara, i rumors su ospiti e co-conduttori, ma l’ufficializzazione della scena ha qualcosa di liturgico che, soprattutto negli ultimi anni, ha innescato commenti e thread di discussione sui social. Per il suo bis al Festival, Amadeus ha scelto la comfort zone e si è affidato alla geniale creatività di Gaetano e Maria Chiara Castelli, che quest’anno hanno trasformato il palco dell’Ariston in una gigantesca astronave proiettata verso un futuro migliore. Ma com’è nata e come si sviluppa la complessa macchina scenica di Sanremo 2021, e quali sono i segreti di questa gigantesca scenografia? Panorama.it l’ha chiesto a direttamente a Maria Chiara Castelli.

Maria Chiara, mancano pochi giorni al debutto: com’è stato lavorare a un’edizione così complicata?

«È stata ed è una sfida bellissima. Il cantiere è cominciato il 28 dicembre scorso, è stato lungo, reso ancora più complesso dai protocolli anti Covid, ma lo abbiamo portato a termine con grande soddisfazione».

Togliamoci subito la curiosità: a chi è venuta l’idea dello stargate?

«A mio Papà. È sempre sua la scintilla che mette in moto l’idea: lui l’accende e noi lo seguiamo. Il desiderio era quello d’immaginare una trasformazione, una transizione per approdare a qualcosa di nuovo, un futuro migliore: lo stargate è questo, una nuova dimensione carica di cose belle».

Quando avete iniziato a lavorare al progetto?

«Siamo partiti nel primo lockdown, lavorando da casa a un’idea senza avere alcuna certezza su questo Sanremo. Chi fa il nostro mestiere cerca di bypassare l’ansia e le cose amare della vita attraverso il lavoro. A fine maggio siamo poi stati ricontattati e abbiamo cominciato la seconda fase del lavoro».

L’assenza di pubblico l’avevate messa in conto anche prima del no di Franceschini?

«Era un’ipotesi in campo da subito e la chiusura dei teatri ci ha stimolato a pensare a come modificare l’impianto complessivo lavorando in particolare sul distanziamento per l’orchestra: sarà protesa fino a sotto la galleria, con quindici file in meno di poltrone. Questo darà un grande impatto visivo e farà sentire meno evidente il vuoto in platea».

Altri trucchi per far sembrare meno vuoto l’Ariston?

«Tutto è pianificato con la regia di Stefano Vicario e il direttore della fotografia, Mario Catapano. Abbiamo spostato le telecamere comprimendo gli spazi, in particolare la galleria, e la regia sarà mirata ad avvolgere lo spettatore. Nel controcampo della scena c’è una novità: il glass box di Radio2, una sperimentazione assoluta, nel quale trasmetteranno la diretta radiofonica».

Tra le novità c’è poi una telecamera che entrerà direttamente dentro la scenografia. Come funziona?

«Sarà posta sotto il soffitto del teatro, molto più in alto rispetto alla scena ed entrerà dentro svelandone l’involucro. La scenografia è decorata esternamente e superiormente dando la sensazione di essere avvolti in una navicella. È come se fosse un’architettura chiusa, ma con i passaggi per le luci: il lavoro di prospettiva ci ha poi consentivo di aumentare la profondità con un classico trucco di aberrazione prospettica».

A proposito di profondità e grandezza: si dice da anni che l’Ariston sia un teatro troppo piccolo per uno show così imponente. Dal vostro punto di vita è davvero così?

«Le difficoltà di progettazione sono oggettive e per di più parliamo d’interventi provvisori, nulla di definitivo che resta di anno in anno. Il palco dell’Ariston è profondo 9 metri e largo 21 in un teatro concepito per un certo tipo di scenografia: le sue dimensioni sono ristrette per uno show televisivo».

Come si ovvia a questi limiti?

«Con la creatività e con la tecnologia. Per esempio da qualche anno a questa parte si è andati oltre il limite del sipario tagliafuoco, quello che costringeva a realizzare delle scale ripidissime visti gli spazi contenuti. Da diverse edizioni ormai la scenografia si è allungata verso la sala: levando 15 file di poltrone è facile fare una scena più importante».

La tecnologia come vi ha aiutato?

«Ci ha permesso di avere una preview totale che fino a pochi anni fa era inimmaginabile. Con Catapano abbiamo potuto posizionare le luci, con Vicario previsualizzare le inquadrature e la scena illuminata: in pratica ad Amadeus abbiamo mostrato uno story board 3d del risultato finale».

Amadeus ha avuto qualche richiesta particolare?

«No, se non una scena con i canoni rituali di Sanremo, le scale e l’orchestra protesa in avanti. Ci ha lasciati liberi di creare».

Altri conduttori vi hanno mai suggerito lo stile?

«Solo un’indicazione di massima. Pippo Baudo ad esempio voleva l’orchestra protagonista sul palco, mentre da Paolo Bonolis in poi tutti l’hanno rivoluta nel golfo mistico. Antonella Clerici, nel 2010, chiese invece di non avere la scalinata e così c’inventammo una sorta di ascensore: sono molto legata a quella scenografia perché fu la prima che firmai con papà».

A proposito delle leggendarie scenografie sanremesi di suo padre: qual è la sua preferita?

«Difficile rispondere. Forse quelle del 1992 e 1994, in stile liberty che erano delle vere e proprie opere d’arte di una raffinatezza d’esecuzione clamorosa: c’era il tocco del pittore Silvano Mattei e dal vivo la resa scultoria e pittorica realizzata dalle maestranze era sbalorditiva».

La più complicata sulla quale avete lavorato?

«Forse quella del 2012, ispirata a Leonardo da Vinci: la macchina scenica del Sanremo di Gianna Morandi portava telecamere e luci per un peso complessivo di 20 tonnellate. Parliamo di prototipi che arrivano e vengono assemblati direttamente sul palco: ci giochiamo il tutto e per tutto ma lavoriamo con un team di persone più matte di noi, abituate a buttare il cuore oltre l’ostacolo».

Risponda di getto: lei ha un cognome ingombrate, le pesano i cliché sui figli d’arte?

«Li capisco e li accetto: ho scelto io di lavorare con papà, benché sia stata una scelta ponderata perché non volevo complicarmi la vita. Ma più che i pregiudizi, m’interessa fare bene il mio lavoro. Oggi ho 47 anni e penso di aver smontato i cliché dimostrando sul campo quanto valgo, anche in un settore ancora molto maschile».

Quando ha capito di voler fare la scenografa?

«Quando da bambina sono entrata al teatro delle Vittorie: ho visto lavorare Antonello Falqui e mettere in scena una tv che era magia. Non ho resistito e mi sono buttata».

Di Falqui che ricordi ha?

«Una persona autorevole, che catalizzava l’attenzione e un po’ mi metteva soggezione, forse perché era un leader: io ero una bambina e m’intrufolavo in teatro, nascondendomi tra le poltrone per vedere Al Paradise – che aveva una scena tutta in sculture di vetroresina dipinte a mano – l’ultimo grande varietà della tv italiana. Si respirava un’atmosfera di grande divertimento, dove la professionalità era un tassello fondamentale».

Poi c’è l’accoppiata Baudo Castelli, una corazzata della tv italiana.

«Per frequentare e stare il più possibile con papà – visto che i miei genitori sono separati – lo seguivo in tutti gli studi dove lavorava. Pippo è uno di famiglia, uno dei pochi grandi amici di mio padre, una persona speciale. È una Treccani del tutto, dello spettacolo e non solo».

Delle tante scenografie cui ha lavorato, a quale è più legata?

«A quelle delle serate evento di Roberto Benigni. Sono scene asciutte, con legni caldi e forme circolari, senza particolati interventi grafici. Lavorare di sottrazione, con l’uomo solo al centro dello studio non è facile: devi togliere senza dare la sensazione di vuoto. La sfida vera è che lavori per un progetto tv ma fai una cosa quasi anti-televisiva. Ancora di più vista oggi: ora senza led pare non si possa fare nulla».

A proposito: oggi le scenografie sono un trionfo di led e luci crepuscolari. Così tutti gli studi finiscono per somigliarsi.

«Per uno scenografo, posizionare degli schermi è quasi una sconfitta. A Sanremo abbiamo usato 600 metri quadri di led ma in questo caso sono funzionali a uno show musicale con più di trenta cantanti e ospiti: grazie agli schermi ogni canzone ha il suo abito cucito addosso. In generale oggi si spinge molto su light design e sulla grafica perché è la moda di questi anni e si è adattata al linguaggio di questa tv».

Il suo grande sogno professionale?

«Lavorare con una scena di ricostruzione d’ambiente, per mettere a frutto quella parte di artigianato in cui siamo forti: oggi l’arredo in tv è fatto da oggetti di design, una volta invece era preponderante la ricostruzione d’ambiente di cui noi italiani siamo maestri».

Non è un caso, e non tutti lo sanno, che ci sia la firma Castelli anche al Moulin Rouge.


«I francesi sono nazionalisti ma per realizzare le scene dello spettacolo che è in cartellone ora vollero le scene di papà – costruite da una squadra di decoratori e carpentieri italiani – e i costumi di Corrado Colabucci: doveva restarci sei anni e invece è arrivato alla ventesima edizione».

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