L’ultimo azzardo di Erdogan

Roman Abramovich, orfano del Chelsea, «avrebbe comprato il Göztepe, squadra della prima divisione turca, dal magnate dell’energia Mehmet Sepil». La notizia era circolata un paio di mesi fa sulla stampa anatolica, finché non è arrivata una smentita ufficiale. Che l’attuale proprietario volesse vendere non sembrava implausibile: i dirigenti calcistici sono nel mirino di una nuova legge del governo di Recep Tayyip Erdogan per i troppi debiti. Ciò anche a causa di un problema di valuta: i team sostengono poderose spese in euro o dollari, ma incassano dalla vendita di biglietti in lira turca. Che però, solo nel 2021, ha perso il 44 per cento del proprio valore al cambio con la moneta americana…
Il crollo del valore della lira, ultimo atto di una crisi economica che attanaglia il Paese dal 2018, è imputabile alle teorie economiche eterodosse del suo presidente-padrone, che lo scorso autunno ha imposto il taglio dei tassi d’interesse dalla banca centrale, al contrario di quanto suggerito dagli economisti.
Risultato: mentre l’Europa vive con la crisi ucraina il suo momento più difficile dalla Seconda guerra mondiale, aumenta l’inflazione, che ad aprile ha toccato il 70 per cento su base annua, con i maggiori rincari che riguardato cibo, carburante ed energia. Così, un quinto degli 84 milioni di abitanti della Repubblica di Turchia oggi si trova sotto la soglia di povertà, secondo i dati ufficiali. Tutti in ogni caso devono fare i conti con le file per il pane fuori dalle botteghe, benzinai chiusi per mancanza di carburante e bollette elettriche che superano i costi degli affitti.

Due cittadini turchi su tre incolpano il governo per la situazione e persino un quarto dei suoi stessi elettori – cosa mai accaduta prima – punta il dito contro il Sultano. La cui impopolarità crescente è per lui un grosso problema in vista delle elezioni generali di giugno 2023. Una sconfitta significherebbe infatti la fine del suo ventennio di potere ininterrotto. Sfumerebbe anche la possibilità di celebrare il centenario della repubblica nell’ottobre successivo: un’occasione unica e prestigiosissima, a cui Erdogan lavora da lungo tempo per glorificare soprattutto se stesso.
Le ultime tornate elettorali però non hanno premiato il suo partito della Giustizia e dello Sviluppo, l’Akp. Nel 2019 i rivali socialdemocratici del partito Popolare repubblicano, il Chp, gli hanno soffiato i sindaci sia ad Ankara sia a Istanbul. Smacco bruciante per l’uomo che ha inaugurato la sua folgorante carriera politica proprio come primo cittadino dell’antica capitale sul Bosforo. Anche le prospettive per il prossimo anno sono fosche. Secondo gli ultimi sondaggi, l’Akp potrebbe conquistare un quarto dei voti al primo turno, tuttavia al successivo ballottaggio vedrebbe Erdogan perdente qualunque fosse l’avversario con cui si trovasse a giocarsi lo spareggio.
La Turchia odierna in ogni caso non è una democrazia ma un «regime ibrido», come l’ha definita il settimanale Economist, che nel suo «Democracy Index» ha visto il Paese scivolare, negli ultimi cinque anni, dalla posizione numero 88 alla 103 su 167. Per spostare gli equilibri a suo favore, Erdogan si può affidare in primo luogo al suo formidabile apparato repressivo, tramite il potere giudiziario ormai asservito all’esecutivo. Dopo il fallito golpe tentato contro il leader nel 2016, i magistrati hanno arrestato per motivi politici quasi 25 mila persone, di cui 4 mila simpatizzanti e militanti dell’Hdp, il partito di sinistra filo-curdo. Sono stati chiusi 150 tra giornali, radio e tv e una ventina di giornalisti rimangono in carcere.
L’altra leva che Erdogan sta manovrando per conservare il proprio dominio è quella della politica estera. Oltre a mantenere saldo l’asse col Qatar, a cui da anni garantisce protezione militare in cambio di generosi aiuti economici, nell’ultimo anno e mezzo ha teso il ramoscello d’ulivo anche alle potenze regionali del Medioriente, con cui negli ultimi anni i rapporti si erano deteriorati. Pur di sbloccare nuovi finanziamenti e opportunità commerciali, i diplomatici turchi hanno ripreso a incontrarsi con i loro omologhi di Egitto, Israele, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita. A quest’ultima è stato addirittura concesso di trasferire dalla Turchia il processo per l’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi, nonostante siano ben note le responsabilità del principe ereditario Mohammad bin Salman.

Ma il Sultano guarda anche più lontano per portare a casa nuovi affari. Per esempio alla Somalia, dove la Turchia ha piazzato una base militare nel 2017 e ha fatto avere il suo supporto al candidato vincente alle elezioni presidenziali di maggio, Hassan Sheikh Mohamud. «Dal 2014 le scelte in politica estera del governo turco sono state dettate dal momento e dalle opportunità, sempre con un occhio rivolto alle ricadute interne» riflette Federico Donelli, ricercatore in Relazioni internazionali all’Università di Genova. «In Africa oggi è soprattutto il business della difesa che guida la politica estera turca: l’Akp ha forti collegamenti con gli imprenditori del settore, che oggi vedono un’occasione d’oro per esportare armamenti e recuperare gli ingenti investimenti degli anni passati». Dove pensa possa convenirgli come ritorno d’immagine in patria, Erdogan continua però anche a fare la voce grossa. Ne è un esempio lampante il rifiuto pregiudiziale all’inclusione di Svezia e Finlandia nella Nato, dopo che i due Stati scandinavi ne hanno fatto richiesta poche settimane fa. Un «no» motivato ufficialmente dalla tolleranza che il Sultano imputa a Stoccolma e Helsinki nei confronti del Pkk, la formazione armata separatista curda. In realtà, una mossa elettorale per accattivarsi consenso soffiando sullo spauracchio di una escalation della guerriglia. «In vista delle elezioni del 2023, la questione curda, dopo un periodo in cui non era più in cima alle priorità dell’agenda politica, torna sotto i riflettori» dice Alessia Chiriatti, ricercatrice per l’area Med e Medio Oriente dell’Istituto affari internazionali. «Erdogan la presenta ai turchi come un problema di sicurezza nazionale dopo lo stop al dialogo con le formazioni separatiste. Anche la gestione dei profughi siriani è un tema elettorale, in particolare per il confronto con il principale leader dell’opposizione, Kemal Kılıçdaroglu, soprattutto in tema di rimpatri».
Proprio i rifugiati sono il tema su cui la linea di politica estera del Sultano è maggiormente criticata. Oltre alle centinaia di migliaia di afghani e iracheni, la Turchia ospita ormai da anni oltre 3 milioni di siriani. Una presenza verso cui la popolazione è sempre più insofferente, soprattutto con la crisi economica. I 6 miliardi di euro ricevuti dall’Europa con l’accordo del 2016 non bastano a coprire i costi secondo il governo turco, che afferma di averne già spesi 32. Per tamponare la situazione Erdogan ora pianifica di reinsediare un milione di siriani nelle zone del Paese arabo sotto il controllo delle milizie sue alleate.
Un ultimo jolly in suo possesso è quello offerto proprio dall’invasione russa dell’Ucraina. Autoproclamatosi mediatore, è riuscito a portare lo scorso fine marzo i rappresentanti delle due parti a Istanbul per i primi colloqui. Successo però effimero, visto che le trattative si sono risolte finora in un nulla di fatto. Anche l’offerta di evacuare con navi turche i combattenti ucraini dell’acciaieria Azovstal è stata snobbata. E se col prolungarsi del conflitto il ruolo internazionale di Erdogan dovesse ridimensionarsi, anche l’obiettivo principale del suo regime avrebbe un serio problema: la vagheggiata restaurazione neo-ottomana faticherebbe a trasformarsi in realtà.
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