mercoledì, 11 Dicembre 2024
L’isola che non c’è
La storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa.
Lo sanno bene il sedicenne Francesco e i suoi tre fratelli più piccoli che stanno attraversando la loro adolescenza nella sofferenza più cupa, trascinati in una valle di lacrime e sangue: allontanati dalla loro mamma, rea di avere accusato il loro papà di violenza e abusi, oggi isolati in tre comunità diverse e con la più piccola dai nonni materni. Francesco stenta a dormire – in preda ad incubi dove intravede i fratelli in fondo ad un corridoio ma non riesce a raggiungerli perché chiusi in cella – la sorellina piange sconsolata, orfana degli abbracci della sua mamma.
Lessico Familiare – la rubrica
La tragedia è il colmo del dolore pulsante che li segnerà per sempre, il freddo della solitudine e il senso di impotenza di fronte ad una Giustizia da cui non si sentono tutelati.
La farsa sono le lettere che Francesco, con la caparbietà tipica dei suoi sedici anni, non sapendo più a che Santo votarsi, dopo avere fatto lo sciopero della fame, ha scritto alla ‘Sua’ Giudice o, meglio, uno dei Giudici Onorari che hanno fatto parte del Collegio che ha firmato il provvedimento di allontanamento dalla sua mamma.
Carta e penna alla mano, visto che i computer e i telefoni gli erano stati sottratti per impedirgli di avere rapporti diretti con la mamma e i fratelli, Francesco lancia al Suo Giudice stilettate che colpiscono il cuore: “perché? Perché i giudici, gli avvocati, gli assistenti sociali, ci stanno infliggendo altro dolore?“
“Perché? Se io e i miei fratelli glielo abbiamo detto in tutte le lingue che non vogliamo più avere a che fare con lui?” scrive riferendosi al padre, nei cui confronti pende richiesta di rinvio a giudizio per maltrattamenti e violenza sessuale (come mi evidenzia il legale della mamma).
E aggiunge: “Lei dovrebbe prima vedere se è vero ciò che diciamo e, nel frattempo, tenermelo lontano, consolandomi e proteggendomi da lui e dai brutti ricordi“.
La Giudice risponde vaga: “Quando i giudici decidono per i ragazzi lo fanno sempre nella speranza e con l’obiettivo di farli stare meglio e risolvere le difficoltà che hanno: non sempre ci riescono e, a volte, si possono sbagliare come tutti, ma non c’è nessuna cattiva fede“.
Ma il ragazzo la incalza: “Mi ricorda che noi ragazzi abbiamo diritti e doveri come quello di andare a scuola. E i suoi doveri di tutelare i minori dove sono? Di tutelare mia madre che con coraggio ha denunciato?“.
Ecco il nocciolo del problema, che persino un adolescente digiuno di legge e codici si domanda: bastano le buone intenzioni per amministrare la giustizia? Basta la buona fede? O non sarebbe più corretto proteggere innanzitutto i minori da ulteriori traumi rispetto a quelli che hanno già subìto?
Nel drammatico panorama delle ingiustizie italiane, siamo dunque di nuovo alle prese con una vicenda inquietante, di quelle che non ti fanno dormire di notte. Così come successe all’epoca dei “Diavoli della Bassa Modenese”, di Bibbiano e di tutte quelle vicende dove l’orco è l’occasione per allontanare dei bambini dalle loro case.
Magari con un provvedimento provvisorio che, però, di fatto varrà come definitivo.
Stando a quanto si legge sugli organi di stampa e a quanto trasmesso nella coraggiosa puntata di “Confessione Reporter” di Stella Pende, dedicata a questa vicenda, l’ingiustizia si sarebbe abbattuta a causa di pregiudizi e distorsioni del sistema, a partire dalla catena sesquipedale di errori cumulatisi nei diversi gradi di giudizio ed in ogni possibile sede – sentendo anche le puntigliose difese dell’avvocato Morace, legale della madre – che hanno coinvolto il Tribunale di Cuneo, la Corte d’Appello di Torino, il Tribunale per i Minorenni di Torino, la Procura delle Repubblica presso il Tribunale di Cuneo. Errori favoriti, sempre sembrerebbe, da diagnosi errate, talvolta inesistenti nella letteratura scientifica, da parte dei periti nominati dai Magistrati (con tanto di strafalcioni nella lettura dei test somministrati alla madre), Curatori Speciali con l’ombra del pregiudizio anti-materno, Assistenti Sociali animati dal medesimo sentimento, Giudici frettolosi che avrebbero asseverato pareri fallati fin dall’inizio e restii a dar voce ai veri protagonisti e vittime di questa vicenda, in barba al diritto sacrosanto all’ascolto dei minori: i quattro fratelli.
Quattro fratelli che, nonostante il calvario che stanno attraversando, provano a rimanere uniti, animati da una commovente solidarietà che nessuna decisione potrà mai annichilire.
“Divide et impera” è il motto bellico più noto, ma quando si applica ad una famiglia e, soprattutto, ai fratelli, diventa l’espressione di un fallimento intollerabile della Giustizia che – in questo modo – vìola i principi basilari che reggono il diritto dei fanciulli, riconosciuto da tutti i trattati e le convenzioni internazionali, come quella di New York del 1989.
Anche la nostra Cassazione si è pronunciata più volte sulla necessità di non separare i fratelli ma tutti questi aulici concetti sembrerebbero essere stati cancellati da un apparato di amministrazioni giudiziarie, pubblici uffici, professionisti e ausiliari animati dal convincimento che solo tenendo questi fratelli lontani dall’amata madre e divisi tra loro si potrà ‘salvarli’.
Ma salvarli da chi e da cosa?
Come se plagiare i sentimenti, l’amore e le volontà di quattro fratelli possa sortire l’effetto sperato e non costituisca, al contrario, un’inutile quanto inefficace crudeltà.
Già perché, da quello che è stato detto e riferito dalla madre, la solidarietà di questi fratelli, plasmata dalle sofferenze di quanto patito, travalica i muri delle loro distinte comunità, le prepotenze subite quotidianamente con il divieto persino di comunicare tra loro, di potersi vedere ed abbracciare.
Nulla fiaccherà la fiamma nel loro cuore così come il ferreo proposito di potersi riunire finalmente con la madre, nella loro casa.
Si è dedicata tanta attenzione – e giustamente – sullo scandalo di Bibbiano, ma tragiche vicende come quella continuano ad accadere, rendendo impossibile poi risalire alle responsabilità, poiché anche laddove un giorno arrivi un coraggioso magistrato che annulli le decisioni precedenti, partirà lo scarica-barile del chi ha sbagliato per primo inducendo l’altro in errore.
Così nessuno pagherà mai, solo quattro fratelli sottoposti ad una pena indicibile che impone, quantomeno, un gesto di pietà cristiana, prima ancora che di giustizia, questa ormai umiliata.
E, dunque, anch’io mi unisco a Francesco per chiedere alla nostra neoministro della Giustizia, Marta Cartabia, di intervenire in modo vigoroso, mandando ispettori e ogni genere di task force per liberare Francesco e i suoi fratelli, riunendoli all’amata mamma, ricordando che per Carlo Arturo Jemolo, uno dei più famosi e apprezzati giuristi, la famiglia è “come un’isola che il mare del diritto può soltanto lambire“.
Solo che per Francesco e i suoi fratelli la famiglia è ormai l’isola che non c’è.
Ma se il cammino dice “seconda stella a destra e poi dritto fino al mattino” noi abbiamo il dovere di trovare la strada che ci porterà a quell’isola. Lo dobbiamo a Francesco e ai suoi tre fratelli.