sabato, 9 Novembre 2024
L’inutilità dell’8 marzo (se resta solo un giorno)
Si avvicina l’8 marzo “festa della donna”, ricorrenza che rimuovo senza esitazione, ritenendola anacronistica e pervasa da un nauseabondo spirito di contraddizione.
Sì perché non possono bastare le giornate a tema per evitare che il “nostro” uomo si vanti di essere superiore, il tesoriere despota che verifica gli scontrini della spesa, che ci vieta di lavorare o guidare l’automobile, o ci violenta o uccide a suo piacimento.
La vita di una donna vale quanto quella di un uomo e il pregiudizio atavico nei confronti dell’altra metà della mela è una speculazione da mettere alle spalle per evitare l’effetto opposto di legittimare la sopraffazione e la violenza maschile.
La Rubrica – Lessico Familiare
Superato Platone che, su per giù nel 400 a.c., riteneva il genere femminile ” materia fecondabile” , o Sant’Agostino che parlava di sesso debole condizionato dalla pavidità, le donne oggi non devono dimostrare più nulla.
E per fortuna anche nell’antichità, al contrario di Platone, c’era chi, come Socrate, arrivava a riconoscere che alcune donne avessero saggezza superiore alla sua.
Si narra che un giorno, mentre il filosofo greco dialogava con un suo allievo nel cortile di casa, sua moglie Santippe, dal carattere forte e autorevole, iniziò a inveire contro di lui, poi si affacciò alla finestra e gli gettò una brocca d’acqua sulla testa.
Socrate, allora, sempre imperturbabile, pronunciò la famosa frase: “tanto tuonò che piovve’, espressione ormai proverbiale per alludere al verificarsi di un evento atteso nel tempo.
Quest’evento ora pare essere arrivato: la Corte di Cassazione, con ordinanza pubblicata lo scorso 4 marzo, ha pronunciato un provvedimento molto duro nei confronti delle ex mogli pretenziose, chiudendo un cerchio che da anni si sta stringendo nei loro confronti.
Si potrebbe pensare ad una ‘carognata’, a pochi giorni dal fatidico 8 marzo, ma in realtà è un atto che richiama il principio di autoresponsabilità economica, anche per rimediare a quelle troppe ingiustizie che vengono propinate a uomini costretti a pagare a vita mogli che, per il solo fatto di essere state sposate, si arrogano il diritto di campare nell’ozio alle spalle dei mariti.
Si dice che quando un matrimonio fallisce la colpa sia di entrambi ma, il più delle volte, a pagare è sempre solo la stirpe di Adamo.
L’ordinanza sopra menzionata è piuttosto curiosa perché afferma, in sostanza, che prima di accordare ad una moglie un assegno di mantenimento, quale esso sia nell’importo, il Giudice deve obbligatoriamente indagare sulla sua capacità di lavoro e sull’inerzia colpevole nel cercare un’occupazione, soprattutto quando, pur avendo la possibilità di rendersi autonoma attraverso una qualsiasi attività lavorativa, non lo fa per motivi di presunta ‘dignità’.
La vicenda nasceva dalla decisione della Corte d’Appello di Trieste che aveva confermato un corposo assegno di mantenimento a favore di una moglie che si era trovata disoccupata e non aveva accettato offerte di lavori manuali, perché considerati svilenti in rapporto al suo titolo di studio (laurea).
I Giudici avevano dato ragione alla donna, affermando che il ‘profilo individuale …. non va mortificato con possibili occupazioni inadeguate‘, in quanto ‘non ogni proposta può ritenersi pertinente ed adeguata’: non si poteva ‘condannare al banco di mescita o al badantato’ una donna laureata che aveva ‘goduto, in precedenza, di un livello di vita invidiabile‘.
La Corte triestina era andata giù pesante, mostrando però un approccio più ideologico che giuridico e questo non è piaciuto alla Cassazione che, in poche righe, senza cedere alla medesima tentazione di scrivere più del necessario e scadere nella vulgata politica, si limita ad affermare che le motivazioni dei giudici d’Appello non trovassero riscontro nella legge e nella giurisprudenza.
Insomma, alla Cassazione è parso che la Corte d’Appello di Trieste abbia rinunciato ad effettuare concrete indagini sulla possibilità di lavoro della donna e sulle concrete offerte di lavoro ricevute, assumendo una difesa aprioristica della stessa.
Quindi, d’ora in poi, le mogli separate, anche quelle che hanno vissuto nell’agio durante il matrimonio perché sovvenzionate da mariti generosi, dovranno andare a pulire i proverbiali pitali delle stazioni ferroviarie?
Non esageriamo.
Non siamo a questi livelli né ci arriveremo però è chiaro che questa ordinanza diventa un monito, una tessera ulteriore nel mosaico della parità di sessi: dove sta scritto, insomma, che solo Adamo debba guadagnarsi il pane con il mitologico ‘sudore della fronte’ quando Eva può rimanere spaparanzata sul divano con le amiche a sorseggiare Manhattan o Sex on the Beach mentre aspetta il giorno 5 del mese per incassare un nutrito assegno?
Dove sta scritto che in caso di separazione coniugale, se c’è parità fra i sessi, se si reclamano scranni in Parlamento, al Governo, nei Ministeri e nei board dei consigli d’amministrazione, tra uomo e donna l’unico che deve chinare la testa e prendere qualsiasi lavoro sul mercato sia solo e sempre solo il primo?
Così no, sembra dire la Cassazione: ciascuna donna dev’essere responsabile e non fare troppo la schizzinosa (perché tanto c’è chi la mantiene a prescindere) e, se ha la concreta possibilità di lavorare, lo faccia.
Non c’è nessuna lesa maestà alla donna in questa pronuncia, solo uno stimolo a non fare la Maria Antonietta ‘de noantri’, quella che irrideva il popolo affamato dicendo ‘Se non hanno più pane, che mangino brioche’.
La realtà è cambiata, non si può vivere da principesse in un mondo di parità e macerie. L’auspicio è che il monito della Cassazione venga uniformemente recepito dalle Corti di merito, siano esse friulane, toscane, lombarde, campane o siciliane.
info: danielamissaglia.com