Le dimissioni di Zingaretti lasciano il Pd senza ragion d’essere

“Mi dimetto, ma non scompaio”, ha detto Nicola Zingaretti in tv da Barbara D’Urso. Una frase che lascia aperti tanti scenari.

Per adesso l’unica certezza è che con le sue dimissioni, che consegnano al caos il suo partito, viene meno quella che fino a ieri era l’unica vera ragion d’essere del Pd. Decade cioè rovinosamente la narrazione per cui, con i lanzichenecchi sovranisti alle porte, ci fosse bisogno di un partito “delle istituzioni”, che con responsabilità facesse da cinghia di trasmissione con i centri di potere, in Italia e in Europa. E garantisse – a suo dire – la stabilità democratica contro la barbarie populista.

Oggi questo racconto, durato anni, si rivela per quello è: uno stratagemma di potere. E la domanda che bisognerebbe farsi è questa: come mai il cosiddetto “partito istituzionale” si sfascia proprio oggi, che abbiamo guarda caso un “governo istituzionale”? L’ascesa di Draghi dovrebbe rappresentare la vittoria del Pd; invece ne segna il periodo più nero. Come si spiega?

Di sicuro, tra gli sconvolgimenti provocati dall’ascesa di Draghi, quello più disastroso colpisce proprio il Nazareno, che oggi ha perso la sua sedicente “superiorità morale”. Si è sempre definito con una certa altezzosità come l’unico “partito presentabile”, e da oggi non può più farlo. I capicorrente si azzannano proprio quando al Paese serve unità: sotto il sole, resta soltanto la corsa alle poltrone. Dietro la facciata della responsabilità, rimane soltanto una sistematica occupazione dei posti di potere: non a caso il Pd da dieci anni siede quasi ininterrottamente al governo; non a caso esprime i commissari europei e il presidente dell’Europarlamento; non a caso è presente nel board di amministrazione di organismi internazionali (Martina è vicedirettore generale Fao) e di importanti fondazioni (pensiamo a Minniti con Leonardo). Infine, non è un caso se negli ultimi tre lustri i Presidenti della Repubblica siano parte del mondo Pd.

Per mantenere questa pretesa di esclusività sui posti che contano, il partito democratico ha accettato di separarsi dal popolo, dalle periferie, dagli operai, dagli ultimi. Si è fatto elite, si è prestato a giochi parlamentari per impossessarsi del potere, ha cercato quando possibile di rinviare il ricorso alle urne, consapevole che prima o poi avrebbe pagato un prezzo pesante. Da ultimo, ha rinnegato sé stesso legandosi mani e piedi a Giuseppe Conte e ai cinque stelle.

Oggi che i consensi sono ai minimi termini, sembra risuonare il liberi tutti. Probabilmente ha ragione Zingaretti a vergognarsi delle lotte intestine nel suo partito: ma è pur vero che quando ha scelto di occupare la segreteria, il Pd non era un collegio di educande. Anzi, era un partito che aveva già bruciato sotto il fuoco amico 12 segretari in pochi anni: e lui aveva il dovere di riformarlo, non di fuggire. Nessuno gli garantiva che sarebbe stato facile: ma candidarsi alla guida di un partito non è certo obbligatorio.

Quanto alla frase d’apertura, “mi dimetto ma non scompaio”, si tratta di capire se Zingaretti vuole ricandidarsi o meno. Se la sua pesantissima lettera d’addio prelude a dimissioni irrevocabili, gli andrà dato atto d’aver parlato chiaro, per la prima volta. L’avesse fatto più spesso, magari nei confronti di Di Maio e Renzi, forse le cose sarebbero andate diversamente. Se invece le dimissioni sono soltanto una manfrina per ripresentarsi alla segreteria, allora assisteremo all’ennesima farsa: quella di un ex segretario che denuncia la corsa alle poltrone, ma solo perché in quella corsa intende arrivare primo.

Leggi su panorama.it