La vendetta in smartworking di Biden contro l’Isis

Un presidente degli Stati Uniti che dice ai terroristi “la pagherete”, minacciando fuoco e fiamme, mentre però nella realtà sta ritirando le truppe con una fretta forsennata, è un’immagine di una tristezza assoluta. Lo specchio della debolezza. Il fatto che con un raid mirato sia stato ucciso un terrorista dell’Isis-k che sembra essere la mente dell’attentato di giovedì, non cambia la sostanza dell’ipocrisia. Non si capisce quale guerra pretenda di combattere Biden, se non una guerra a distanza, combattuta solo a parole dal podio d’una conferenza stampa, o dalle stoffe della casa bianca. In pratica, una guerra in smartworking, per usare un termine in voga di questi tempi. La tele-guerra, la guerra da remoto, per interposta persona: uno scenario che in Occidente si presenta sempre più spesso, dovendo fare i conti con una opinione pubblica che rispetto al passato non è più disposta ad accettare che si versi sangue occidentale in terre lontane. Ma è impossibile ricoprire il ruolo di comandante in capo della prima potenza mondiale senza sporcarsi le mani: come disse una volta George W. Bush, “nello studio ovale non ci sono angoli dietro i quali nascondersi”.

Biden sta sbagliando tutto, anche comunicativamente: nessun presidente si era mai commosso davanti a una domanda dei giornalisti. Una condotta che segna una profonda impreparazione, da un lato, e testimonia una debolezza senza precedenti, dall’altro. Sleepy Joe sta uccidendo la credibilità americana nel mondo, un patrimonio non solo degli americani, ma di tutti gli alleati. E questa opera di distruzione procede assai più veloce di quanto potesse fare Donald Trump che pure aveva contro tutta la stampa occidentale. Certo, le responsabilità sono molte: Biden raccoglie anche i frutti marci coltivati dai suoi predecessori, convinti che con gli assassini si possa scendere a patti o si possano siglare accordi, convinti che dei fondamentalisti ci si possa fidare, convinti che con i talebani, per dirla alla Giuseppe Conte, si possa prendere persino un aperitivo.

In secondo luogo, non siamo di fronte solo al fallimento di Biden, che di questo passo difficilmente potrà arrivare politicamente incolume alla fine del suo mandato. A fallire è quel filone liberal della politica americana che va da Barack Obama a Hillary Clinton: personaggi abili nel gestire le telecamere, osannati dagli intellettuali che contano, ma che sul campo, dalla Siria all’Afghanistan, hanno collezionato figuracce. Ciò nonostante, sono diventati i paladini dei progressisti di casa nostra, sempre in cerca di un modello estero cui inginocchiarsi. Ricordiamo con tenerezza le reazioni esultanti della sinistra italiana alla vittoria di Biden: Gentiloni che si abbraccia da solo, Enrico Letta che inneggia a un nuovo mondo pacifico, il sollievo generale per la cacciata di Trump e l’ingresso degli adulti nella stanza ovale. Ecco, i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Così, mentre aspettiamo di comprendere appieno quanto possano essere nefaste le conseguenze della disfatta americana, e che in modo il terrorismo troverà in Afghanistan una nuova culla, non resta che prendere atto di una triste verità: se la sinistra italiana è incapace in patria, all’estero, in compenso, non ne azzecca una.

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