La scuola non è la priorità dei nostri politici

In alcuni programmi trovare la paginetta dedicata alla scuola è addirittura complesso. Eppure in questi anni tutti gli esponenti di ogni parte politica hanno ripetuto ossessivamente che la scuola dovesse essere prioritaria per l’azione politica. E lo si dice ancora in questo periodo di campagna elettorale, mentre alla prova dei fatti, al di là di frasi fatte, promesse mirabolanti e ritornelli stanchi, c’è davvero poco.

Il punto forte della proposta del Partito Democratico è “l’allineamento, entro i prossimi cinque anni, alla media degli stipendi europei”. Si tratta di una proposta forte e nata quasi improvvisamente, forse troppo per essere credibile. Viene da chiedersi perché gli esponenti del PD non abbiano messo sul tavolo questa riforma negli ultimi anni, essendo al governo. Ogni giorno sarebbe stato buono per iniziare. Viene da chiedersi perché proprio ora, a un mese e mezzo dalle elezioni, emerga una posizione così netta che preveda un ingente impegno economico, quando negli anni di governo non ci sia stato un solo adeguamento contrattuale. Gli altri punti del programma del PD sono un elenco di buoni propositi assai vaghi: “proponiamo un fondo nazionale per i viaggi studio”, “vogliamo garantire…” fino al punto che riguarda gli insegnanti di sostegno che, da programma, il PD “si impegnerà a aumentare di numero”. Ecco, è proprio questo linguaggio vago a deludere: se ci fosse la percezione della necessità di affiancare un docente di sostegno di ruolo per ogni bambino bisognoso, solo per fare un esempio, servirebbe il coraggio di scrivere che “ogni studente bisognoso di sostegno avrà un docente di ruolo a lui dedicato” e così via, dettagliando il come e entro quando questo accadrà.

Il centro destra ha sintetizzato in un solo documento il programma elettorale dei tre partiti che lo compongono e la parte dedicata alla scuola è il punto quattrordicesimo su quindici. Gli assi di interesse sono nove e anche questi sono caratterizzati da ampie generalizzazioni: meritocrazia, ammodernamento e messa in sicurezza, valorizzazione degli studi tecnici e professionali. Sono punti pressoché identici nei vari schieramenti, per cui risultano poco caratterizzanti, deboli. C’è la conferma del buono scuola per la libertà di scelta educativa, pensando alle famiglie che sceglieranno la scuola paritaria rispetto alla scuola statale. Meno promesse, forse perché il bacino elettorale a cui si rivolge quest’area pesca meno tra i lavoratori della scuola. Su tutti, spicca un generico “favorire il rientro degli italiani altamente specializzati attualmente all’estero” ancora senza ulteriori specifiche.

Il documento del cosiddetto terzo polo, vale a dire quello di Azione e Italia Viva, appiattisce l’esperienza italiana sui modelli stranieri, proponendo la riduzione di un anno di studi, passando da tredici a dodici in tutto. “Come avviene in Europa”, sostengono i fautori di questa riforma, ma non è detto che ciò che si faccia altrove sia necessariamente da imitare perché migliore. I problemi della scuola italiana non sono certo imputabili all’anno in più previsto dai nostri corsi di studio, anzi è riconosciuto da tutti che chi compie gli studi in Italia come si deve è poi ricercato e conteso dagli atenei di tutto il mondo. Ancora, tra i punti di spicco emerge il potenziamento delle ore di educazione civica, una disciplina trasversale senza un docente di ruolo che da qualche anno sta mettendo in difficoltà molti istituti, che piace poco per come è fatta e di cui la stragrande maggioranza di chi fa la scuola farebbe a meno. Non certo per la disciplina in sé, mirabile e degnissima, ma perché è inserita in malo modo e che, con coraggio, bisognerebbe definire per quello che è, uno specchietto conformista per le allodole.

Infine la proposta del Movimento 5 Stelle, che in pochi punti resta assai vago, come più o meno tutti i programmi, e che propone più psicologi e pedagogisti per i bisogni della realtà scolastica (come se fossero la stessa cosa! e sempre senza spiegare come e con quale ruolo sarebbero inseriti, soprattutto per quel che riguarda i pedagogisti) e la riduzione del numero chiuso alle facoltà universitarie, aprendo una questione enorme che riguarda l’orientamento in uscita.

Questi i punti cardine delle principali piattaforme politiche. La scuola non si risolleverà con nessuno di questi programmi, perché sono tutti così vaghi e generici che consentiranno di non essere mai prioritari in nessuna azione di governo.

Leggendo questi programmi si ha la sensazione di un’occasione mancata, insomma, perché mancato è l’ascolto della comunità scolastica, per cui mancano alcuni temi realmente prioritari per la scuola: non c’è traccia di classi a numero ridotto, come se le classi di 27, 28, 32 studenti non fossero uno dei maggiori problemi della scuola. Non c’è traccia di percorsi di laurea abilitanti che porrebbero fine alla corsa a ostacoli per iniziare ad insegnare senza dovere rincorrere novità pressoché annuali di reclutamento. In generale, non c’è concretezza, ma ancora una volta parole parole, soltanto parole: promesse di stipendi accresciuti, promesse di luoghi migliori. Promesse, come sempre, ma la scuola così non ce la fa più.

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