Il nucleare di quarta generazione è sicuro. Rinunciarci, un errore

Lo chiamano nucleare di quarta generazione e con ogni probabilità sarà il modo con il quale definiremo la tecnologia standard dei reattori entro una decina d’anni. Produrranno energia elettrica, termica e da questa anche idrogeno, saranno controllati mediante l’impiego di elementi in grafite e di gas inerte come l’elio, potranno ridurre di molto la produzione delle scorie nucleari e anche riutilizzarle oppure bruciarle, come le versioni definite “veloci”. Ma soprattutto saranno sicuri.

Come refrigerante non useranno quindi più l’acqua, eliminando la possibilità di contaminarla, e nella loro seconda generazione potrebbero funzionare a Torio (Th, numero atomico 90), metallo radioattivo che però si trova nella crosta terrestre in quantità tre volte superiore all’uranio, quindi è più economico (il costo estrattivo è inferiore ai 100 dollari al chilo), e il cui decadimento è più rapido, alcune decine d’anni.

Non potranno però azzerare completamente il problema delle scorie, anche se la loro gestione sarà ridotta al punto che le poche prodotte saranno stoccate all’interno degli impianti stessi, in apposite aree, senza più la necessità forzata di realizzare contenitori appositi.

Cina e Russia hanno cominciato la sperimentazione molto tempo prima dei Paesi europei contando sulla necessità di rinnovare i reattori di vecchio tipo (seconda generazione), mentre la Comunità europea ha finanziato il progetto Alfred nel 2013 per il quale era nato il consorzio Falcon, costituito lda Ansaldo Nucleare, Enea e dall’Istituto romeno per le ricerche nucleari. Alfred sta per Advanced lead fast reactor european demonstrator, ed è stato il primo progetto di reattore nucleare di nuova generazione per consentire a tutti gli istituti dell’Unione di poter sperimentare soluzioni innovative in fatto di energia nucleare, a cominciare dalla tecnologia dei reattori veloci refrigerati a piombo.

Oggi il consorzio unisce Ansaldo Nucleare e Reinvent Energy (Romania) e si è aggiudicato un contratto del valore di circa 20 milioni di euro per la progettazione, l’installazione e la messa in servizio dell’impianto sperimentale chiamato Athena (Advanced Thermo-Hydraulics Experiment for Nuclear Application), un reattore veloce a piombo liquido (880 tonnellate) da 2,21 MW. A lavorarci sono le italiane Enea e Srs per la progettazione della parte tecnologica, Ispe e Somet (Romania) per la realizzazione delle opere e delle attività necessarie per l’installazione. Il progetto prevede che sia realizzato un impianto simile allo Alfred con il quale Athena potrà sperimentare le innovazioni presso il centro di ricerca Raten-Icn di Pitesti, in Muntenia, entro il 2028.

Ciò che di fatto rallenta gli investimenti nel nucleare, rendendoli più rischiosi per chi li finanzia, sono proprio le lunghe tempistiche necessarie per realizzare le opere infrastrutturali. E avendo voluto abbandonare la tecnologia dell’atomo alla metà degli anni Ottanta, l’Italia non ha avuto la necessità di innovarne la sua tecnologia, limitandosi, prima di Alfred, a progetti sulla carta.

Intanto avanza la fusione

Proseguono anche gli studi per la fusione nucleare, traguardo ambizioso al quale l’umanità non arriverà prima prima di vent’anni: Il Joint European Torus (Jet), piattaforma del consorzio Eurofusion situata a Oxford, del quale l’Italia tramite Enea fa parte, ha annunciato il 9 febbraio di aver raggiunto un traguardo importante durante il programma di esperimenti effettuati sul sistema di controllo del plasma, ovvero del gas caldissimo e rarefatto formato da una miscela di deuterio e trizio che viene mantenuto lontano dalle pareti interne della camera fatte in berilio e tungsteno grazie a un intenso campo magnetico. Seppure l’energia necessaria per realizzare l’esperimento sia ancora di molti ordini di grandezza superiore a quella prodotta, si è innescata una reazione di fusione continua della durata di cinque secondi, capace di dare più energia di quanta ne fosse stata prodotta nei test precedenti. Sono ancora quantità minime, 59 megajoule contro i 22 del 1997 (l’equivalente del cuocipasta di un ristorante), ma si tratta di un traguardo molto importante perché costituisce un passo decisivo verso l’accensione del reattore a fusione Iter che si sta realizzando in Francia, avendo dimostrato che i materiali usati si comportano come previsto dai modelli teorici.

Announcement of the Joint European Torus (JET) Deuterium-Tritium results www.youtube.com

Ma soprattutto, che mentre per produrre quel calore con combustibili fossili sarebbero stati necessari 4 litri di gas o un chilo carbone, o mezzo litro di benzina, qui è stato fuso soltanto 0,0001 grammo di materia. “Abbiamo dimostrato che possiamo creare una mini-stella dentro la nostra macchina e tenerla accesa per 5 secondi, entriamo in una nuova dimensione”, ha dichiarato Joe Milnes, numero uno delle operazioni dell’ente inglese per l’energia atomica (Ukaea), mentre Tony Donné, responsabile del programma Eurofusion, ha dichiarato: “Se possiamo mantenere la fusione per cinque secondi, lo potremo fare per 5 minuti, poi per 5 ore…” alludendo alla difficoltà di mantenere il controllo di una macchina che lavora con una temperatura interna di cento milioni di gradi e per questo degrada le pareti della camera che ospita il plasma. Del progetto fanno parte gli inglesi, seguiti per importanza dalla Germania e quindi dall’Italia, che per questo riceverà fondi il 16% dei fondi europei, circa 90 milioni di euro. Eurofusion fa lavorare 4.785 scienziati provenienti da 28 nazioni, tutte dell’Unione più la Svizzera, l’Ucraina e il Regno Unito. E per la realizzazione di Iter, il reattore sperimentale in costruzione in Francia, le nostre aziende nazionali hanno ricevuto commesse per 1,32 miliardi di euro.

VIDEO Jet experiment: https://youtu.be/H99hvPlC4is

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