Enrico Letta, il «finto neutrale» che può distruggere per sempre il Pd

Il ritorno di Enrico Letta che ha sciolto poco fa la riserva dicendo il suo Si per la guida del Pd pone alcuni interrogativi sul futuro del Nazareno. Il punto è infatti innanzitutto capire il senso di questo rientro in scena dopo le improvvise dimissioni di Nicola Zingaretti. Dimissioni accompagnate dalle aspre critiche del segretario uscente, che ha messo nel mirino le (arcinote) faide interne al partito. Ecco, è proprio partendo da quel gesto eclatante e da quelle dure dichiarazioni che qualcuno pensa oggi a Letta come a una sorta di pacificatore. Il professore pacato che, terminato il lungo esilio (politico) parigino, torna per fare da mediatore in un Nazareno sempre più preda delle correnti. Quasi un tecnico potenzialmente in gradi di portare un’armonia che (oggettivamente) non c’è mai stata. Eppure questa vulgata rischia di non reggere alla prova dei fatti. Perché, ben lungi dal rappresentarne un antidoto, il ritorno di Letta si inserisce chiaramente nel quadro dello scontro tra correnti in seno al Pd.

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Il nome di Letta, per intenderci, non è neutrale. Non lo è affatto. Né guardando alla storia né al futuro del partito. Il rientro in scena dell’ex premier, sul piano politico, costituisce innanzitutto una sonora porta in faccia alle aree filo-renziane interne al partito: tutti ricordiamo la direzione nazionale del febbraio 2014, quando Matteo Renzi – allora segretario del Pd – di fatto defenestrò Letta. Un Letta che non ha mai perdonato quella mossa all’attuale senatore di Rignano e rispetto a cui, nel 2017, dichiarò addirittura di provare “disgusto”. Già questo basterebbe quindi a capire che il rientro dell’ex premier costituisca un chiaro messaggio di bellicosità agli ambienti filo-renziani del Pd. Figuriamoci poi a Italia Viva.

Ma non è soltanto una questione di mera acredine personale. Il problema è infatti ben più complesso. E chiama in causa la linea politica che il partito prevedibilmente assumerà nei prossimi mesi. Cominciamo col sottolineare che il ritorno di Letta abbia ricevuto il chiaro endorsement dello stesso Zingaretti che ha parlato ieri di “soluzione più forte e autorevole”. Guarda caso, esattamente nelle stesse ore, Zingaretti, da governatore del Lazio, ha aperto la maggioranza regionale al Movimento 5 Stelle, con Roberta Lombardi che diverrà assessore alla transizione ecologica. Segno evidente che il nuovo segretario proseguirà la linea di avvicinamento ai grillini che fu del suo immediato predecessore. Una linea di avvicinamento che – ancora – i settori filo-renziani del Pd non hanno mai granché digerito. E’, in altre parole, fortemente probabile che Letta rafforzerà la convergenza con Giuseppe Conte e che, in quest’ottica, lavorerà nell’orizzonte di una coalizione giallorossa.

In tal senso, non è neppure da escludere che il nuovo segretario cercherà di tendere una mano a Leu: sarà un caso, ma – nelle scorse ore – Pierluigi Bersani ci ha tenuto a far sapere che con Letta si lavorava “in vera amicizia e in vera lealtà”. In tutto questo, resta anche improbabile un cambio di passo nelle bizzarre relazioni che intercorrono tra il Pd e le Sardine: era il dicembre del 2019, quando Letta ebbe a dire: “Sostengo con grande forza il movimento delle sardine e sono molto contento per quello che sta accadendo”. Non è chiaro in che cosa queste parole differiscano dalla posizione del governatore del Lazio.

Insomma, cambi di linea all’orizzonte non sembrano presagirsi. Il che oggettivamente un po’ del paradossale ce l’ha, visto che la linea filo-grillina di Zingaretti ha condotto, in questo anno e mezzo, il Nazareno in forti difficoltà, provocando turbolenze intestine ed effetti negativi in termini di consenso. E, davanti a una situazione di tale emergenza politica, il ritorno di Letta somiglia molto a un’operazione gattopardesca. L’esatto opposto di quella scossa di cui il Pd avrebbe bisogno per rientrare in gioco.

Un segretario post Zingaretti dovrebbe innanzitutto recuperare una visione politico-strategica dall’anima nazional-popolare, oltre che di radicamento nelle fabbriche e nei territori. Ebbene, per conseguire un simile obiettivo, forse, bisognerebbe raffreddare (se non troncare) i rapporti con uno schieramento – il Movimento 5 Stelle – che è l’esatto contrario del radicamento territoriale; che ha costruito (non senza qualche opacità) la sua fortuna di fatto soltanto sul web e sugli esperti di comunicazioni; che – nato per portare avanti alcune battaglie – si è ormai dato da tempo in pasto al camaleontismo fine a sé stesso (basta del resto guardare a chi si è recentemente scelto come leader). Un Pd in grado di giocare d’attacco non starebbe neppure a rincorrere le Sardine: una realtà qualunquista, banalmente retorica, senza idee, presunta e fumosa rappresentante di una non meglio precisata “società civile”, che – per giunta – ti insulta pure definendoti “partito tossico”. Il che tradotto vuol dire: farsi prendere a schiaffi dal nulla. Ecco perché il Pd avrebbe urgentemente bisogno di discontinuità. Una discontinuità che Letta sembra tuttavia ben lungi dal saper garantire.

Preveniamo l’obiezione. Una strategia del genere (chiudere a grillini e Sardine) equivarrebbe, qualcuno potrebbe dire, a tornare da Renzi. Ma è proprio qui il problema. Uno schieramento che non riesce a uscire dallo schema sclerotizzato “o Conte o Renzi” non è uno schieramento che può realmente ambire a tornare “partito di massa” né – tantomeno – a rappresentare una sinistra maggioritaria. L’incapacità di creare alternative (di tornare alla “politica come arte del possibile”) nasce dalla triste constatazione che il Pd non abbia mai avuto un reale processo di “autocritica” al suo interno, ma – soprattutto – dall’altrettanto triste fatto di non aver mai accettato una autentica “traversata nel deserto”, mirando invece a restare al governo sempre e comunque (agosto 2019 docet). Le traversate nel deserto aiutano i partiti a crescere: stare all’opposizione è utile anche per rientrare in sintonia con i territori, con la base elettorale, per elaborare nuove idee e nuove classi dirigenti. Cercare di stare sempre e comunque al governo, di contro, allontana dal popolo, inaridisce i dibattiti e rende la politica quella mera faida di poltrone di cui parlava Zingaretti. Quello stesso Zingaretti che tuttavia figura tra i responsabili di questa situazione. E la linea di continuità rappresentata oggi da Letta pone, per il futuro, più dubbi che risposte.

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