Cosa voteranno gli elettori «Draghiani»? Forse nessuno

D’accordo: siamo tutti draghiani. Destri e sinistri, ricchi e poveri, operai e imprenditori: la figura del premier riscuote successo in ampie fasce del paese, in maniera trasversale. Ma detto questo: come si traduce questa fiducia in voti elettorali? Posto che Mario Draghi non ha (e molto probabilmente non avrà) desiderio di fondare un partito personale – anche viste le rovinose esperienze del passato, vedi Mario Monti – che fine farà il “draghismo” che imperversa nel Paese? In altre parole: quali forze politiche raccoglieranno l’eredità del premier?

«Il consenso di Draghi non se lo prenderà nessuno», dice Gianfranco Pasquino, professore emerito di scienza politica. «Il draghismo del capo del governo nel Paese è indirizzato alla sua persona, al prestigio che possiede sulla scena, e che nessuno attualmente può vantare nel panorama politico».

Dunque, la forza elettorale del premier è destinata a morire con lui?

«Dipende: se diventa presidente della Repubblica potrà durare fino al 2029, ma anche in quel caso nessuno potrà presentarsi al Paese come il partito “draghiano” per eccellenza – dice Pasquino – anche perché molti dei draghiani di oggi sono solo degli opportunisti che non hanno mai applicato in passato le politiche di Draghi: le ingoiano oggi perché ci guadagnano. Quindi sono anche ipocriti».

Il punto è questo. Il successo di Draghi non si trasmette. E questo perché da un lato la forza del premier si basa sulla sua persona: e dall’altro è anche il rovescio della medaglia della debolezza della politica e di un parlamento che non riesce a esprimere maggioranze solide da diversi anni a questa parte. Il prestigio di Draghi è reale, ma prospera anche sul fatto di aver commissariato quelle forze politiche che agli occhi dei cittadini appaiono ormai delegittimate. Certo, tutti sappiamo che la parentesi di emergenza prima o poi è destinata a chiudersi (anche se dall’ultimo governo Berlusconi sembra di essere in emergenza continua, ogni volta per motivi diversi): ma è anche plausibile che con un’ipotetica elezione di Draghi al Colle si possa pervenire a un “presidenzialismo di fatto” del sistema politico italiano. Un presidenzialismo in cui i poteri del Capo dello Stato si estenderebbero nella concreta pratica quotidiana, senza una cornice costituzionale a certificare la situazione: una prospettiva che comporterebbe un ulteriore indebolimento del Parlamento, processo che per molti è già in atto con la presidenza Mattarella. Anche nel caso di Draghi “re repubblicano”, nessuna forza politica si intesterebbe il suo consenso?

«Il Pd potrebbe ambire a questo ruolo – dice Pasquino -, ma dipende in quel caso da chi ci sarà Palazzo Chigi, e dal coraggio con cui Enrico Letta deciderà di approfittarne per imprimere una certa linea al partito. Anche Forza Italia cercherà di presentarsi come il partito erede della dottrina Draghi: ma ormai quel partito è debole e risicato». Insomma, ogni tentativo delle forze politiche di intestarsi il prestigio draghiano risulterà vano. A maggior ragione, se Draghi deciderà di lasciare il proscenio italiano, come sussurra qualcuno, per occupare prestigiosi ruoli internazionali, allora probabilmente archivieremo ancora più in fretta questa fase eccezionale e ogni leader cercherà di reinventarsi come può, trovando nuovi equilibri.

E nel Paese, dove pure i draghiani sembrano una maggioranza schiacciante, come si comporteranno gli elettori una volta che Draghi lascerà palazzo Chigi? Anche qui bisogna distinguere: molti apprezzano Draghi in sé, cioè Draghi in quanto privo di ambizione politiche. Altri elettori apprezzano invece le sue politiche economiche e di gestione della pandemia. «Non possiamo sapere con precisione quanti elettori apprezzano le politiche di Draghi, più che la sua figura personale. Sappiamo solo una cosa: il merito di una persona non si traduce automaticamente in voti». Insomma, se la terza repubblica sembra il regno della confusione perpetua, figuriamoci la quarta.

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