mercoledì, 4 Dicembre 2024
Con Kalavría torna Ulisse, mito dell’eterno viaggiatore
Presentato al BIF&ST di Bari, al Magna Graecia Film Festival in Calabria, Kalavría della regista Cristina Mantis si è appena giudicato il Vesuvio Award come miglior film al Napoli Film Festival. Il mito di Ulisse ripresentato in chiave moderna, sullo sfondo della Calabria terra di viaggi migratori.
Cristina Mantis, ha portato sul grande schermo il mito del viaggiatore senza tempo…
«Ho messo in scena la figura di un Ulisse devastato dal proprio vissuto, che diviene l’emblema contemporaneo dei superstiti delle guerre, dei naufragi, di ogni genere di nefandezza prodotta dall’uomo: le immagini inquadrano la singolare e onirica vicenda di Ulisse, interpretato da uno straordinario Ivan Franek (volto notissimo di piccolo e grande schermo) prima di arrivare ad Itaca. C’è il viaggio fisico, da sempre carico di fascino culturale ed emerge, ovviamente, la dimensione interiore, intesa come viaggio di riappropriazione del proprio Io. Eccoli i due piani narrativi che danno senso alla pellicola».
In questo modo il pubblico diviene spettatore di un viaggio esperienziale.
«E’ il messaggio che vorrebbe dare il mio film documentario: rendere questi due piani narrativi della pellicola lo strumento per trasformare lo spettatore in una sorta di co-protagonista in un viaggio catartico che la figura di Ulisse ha naturalmente esaltato: lo conosciamo come un sopravvissuto che si ritrova a vagare in una terra arcaica che l’aiuta a percepirsi, a riappropriarsi di sé, a conoscersi. E in questo suo vagare fisico si compie anche il viaggio interiore».
Con questi presupposti la trama ha fatto preso sul pubblico, pare di capire…
«Kalavría mi sta dando grandi soddisfazioni in termini di pubblico. Un’ottima accoglienza in ogni parte d’Italia, visto il sold out al Farnese di Roma e la bella e calorosa proiezione all’Anteo di Milano, come anteprima dello “Sguardi Altrove Film Festival”, che si terrà a marzo. Anche la stampa e la critica hanno prestato interesse alla pellicola che esalta un cinema di nicchia che merita di liberarsi da vecchi stereotipi per raggiungere un pubblico di varia estrazione».
Il tema pare interessi se è vero che la figura di Ulisse è apparsa alla Festa del Cinema di Roma nel film di Uberto Pasolini “Il ritorno” con uno straordinario Ralph Fiennes accanto ad una interprete come Juliette Binoche nel ruolo di Penelope…
«Ironia della sorte? Molto più semplicemente mi spiego quest’accostamento con il fatto che si sia alzata la soglia della consapevolezza sociale di fronte al tema della guerra generatrice di scempi di ogni sorta, per come la quotidianità ce la sta restituendo. Innanzi a tale carico di disumanità attori e registi attualizzano gli archetipi affinché il pubblico possa familiarizzare con il mito di cui siamo fatti, che ci appartiene. Gli uomini ripetutamente traumatizzati dalla guerra vivono regressioni psichiche ed è anche per questo che Ulisse vaga tardando il suo ritorno ad Itaca».
Nel suo film Ulisse ha la fortuna di girovagare tra un’umanità accogliente…
«E’ stato grazie alla generosità della gente che ha incontrato durante il suo cammino e all’amore delle donne con cui è venuto in contatto che in qualche modo è riuscito a salvarsi dalle tante vicissitudini in cui si è imbattuto: come dimenticare l’amore altruistico della dea/maga Circe, (interpretata dalla bravissima Agnese Ricchi) disposta a rinunciare all’immortalità pur di continuare ad averlo al suo fianco! Questo piano narrativo è praticamente senza tempo, percorre la storia dell’umanità e ce lo ritroviamo ancor oggi, quasi a voler sottolineare che la parabola umana si àncora a principi universalistici».
Senza dimenticare Penelope…
«Ed è sempre un sentimento, quello per Penelope, che si materializza nella voce del vento, dell’anima e dell’aquila (nell’interpretazione di una leggenda come Edda Dell’Orso) che lo risveglia e in qualche modo lo riaccompagna fino a casa. Perché anche se è vero che la mente di Ulisse ha rimosso molte delle vicende, tutto ciò non è accaduto per il cuore…».
Kalavría è ambientato in Calabria…
«Pensavo da molti anni di girare un film-documentario in Calabria, ne parlavamo spesso con Domenico Pantano, attore e presidente del Centro teatrale meridionale, oggi co-produttore della pellicola assieme a Ganesh Produzioni e Movimento Film, tra l’altro realizzata con il sostegno del MiBACT e dalla Calabria Film Commission. Un giorno scopro che lo storico tedesco Armin Wolf, dopo 40 anni di studi sulle carte di navigazione di Omero, giunse alla conclusione che l’ultima tappa di Ulisse prima di tornare ad Itaca sia stata la Calabria. Da qui è partita l’idea di raccontare diversamente una terra ancor oggi oggetto di narrazioni non sempre veritiere. Ecco il titolo della pellicola, il nome greco della penisola calabrese…».
…con la Magna Graecia che fa da sfondo.
«L’area di espansione verso occidente della Grecia, dall’VIII secolo a.C. si affaccia con il suo carico storico dalle rovine di Sibari e Crotone. E di Locri, dove un battibecco tra due strani personaggi al cospetto di Ulisse con un divertente fiore in bocca, si contendono la paternità della nascita della celebre colonia: sono il compositore e poeta greco Alexandros Hahalis e Pitagora (interpretato da Domenico Pantano, appunto), quest’ultimo a ribadire come i greci, giungendo in Kalavría, abbiano trovato terreno fertile per la nascita delle colonie».
Emerge, potente, un messaggio senza tempo
«Se la Grecia fu “Magna” in Calabria è perché trovò dei semi buoni, e non dobbiamo dimenticare che quei semi siamo proprio noi. Proprio questi tempi di smarrimento ci impongono di ricordare che discendiamo da popoli venuti dal mare che si sono succeduti e amalgamati. C’è un invito a guardare ad Oriente, come suggerisce lo scrittore Gioacchino Criaco, custode della lingua grecanica, che si rivolge alla sua gente perché ritrovi identità e fierezza. Lungo la costa jonica della Calabria questo messaggio è più vivo che mai».
Il film fa risaltare la parola “umanità”: un invito a non perderla?
«Questa parola è ripetuta decine di volte nel canto di un griot africano (un poeta e cantore nella tradizione africana occidentale, nda) tra le rovine di Africo -vero paese fantasma- luogo simbolo della Calabria contemporanea. La scena è sicuramente uno dei momenti mistici del film: il griot senegalese Badara Seck canta alle anime rimaste nel paese abbandonato, ringraziandole per essere le custodi mai stanche del luogo e, in generale, delle anime perse ovunque. Ci trasporta ad un livello di intensità spirituale che credo racchiuda uno dei messaggi centrali del documentario: in un mondo alla deriva, solo l’umano può salvare l’umano, con la preghiera da coolante universale».
Scena simile quella delle abitazioni riprese a Civita, l’antico borgo montano del Pollino…
«Si tratta delle “case Kodra”, costruzioni dal volto umano, vere case parlanti che richiamano aspetti antropomorfi. Ho chiesto al mio protagonista di non recitare, di spogliarsi di tutto, di non pronunciare una sola parola prima che non gli fosse salita direttamente dall’anima. Oggi il silenzio si impone come riflessione interiore rispetto alla Babele dei nostri tempi. Parole che non convincono, che non ci riscaldano il cuore e la mente».
Sarà per tutto ciò che Kalavría diventa il rifugio di Ulisse, nonostante non sia la sua patria?
«E’ il luogo in cui l’ultimo brigante lo invita nella sua grotta e spezza il pane con lui, così come anche gli zingari o i migranti condividono con lui quel poco che hanno. Lontani da certe logiche “occidentali” c’è ancora una sorta di condivisione, un riconoscersi nell’altro nelle stesse nostre condizioni. Le immagini delle vaste aree di natura incontaminata aiutano ad avvertire il riaffiorare del mito e della storia di cui Ulisse sente di far parte. Non sa il perché e non se lo chiede. Più che un ritorno alle origini della materia, si tratta di un ritorno alle origini dello spirito…».